Kostia, 2003. Un palcoscenico all’aperto in una calda sera d’estate al Museo del Senio di Alfonsine (Ra), con un folto pubblico composto da addetti ai lavori, spettatori venuti appositamente dalla città e avventori dei bar della piazza. La dinamica dei gesti intreccia figure e affastella fugaci visioni, sul palco due corpi si rincorrono, la luce sovraespone movimenti che sembrano lasciare una scia.

Namoro, 2004. Un pomeriggio in piazza San Francesco, a Ravenna. Sul fondo della piazza una basilica paleocristiana, sul lato opposto c’è un nugolo di persone che osserva la vetrina dei chiostri della biblioteca comunale, un interno affacciato sullo spazio pubblico. Dietro al vetro scorgiamo un corpo femminile che si espone, ostende il bacino, si curva fino a piegarsi formando un arco acuto.

Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla], 2007. Un tardo pomeriggio primaverile, al secondo piano di un noto club musicale riminese. Le luci naturali bagnano uno spazio vuoto, due figure umane sono in preda a rantoli e contorsioni, una scatola blu e una sfera vitrea ci riportano a un’oggettualità che vorremmo ristabilisse un raziocinio.

Scegliamo di partire da tre visioni personali che legano il percorso professionale di chi scrive alla vicenda artistica e biografica di gruppo nanou. Scegliamo di aprire la porta assecondando le indicazioni di questa compagnia che ha la sua base a Ravenna, prendendo alla lettera alcuni dei titoli dei loro spettacoli (Faccende personali, Strettamente confidenziale) anche per vedere dove ci porterà questo varco e se mai potremo richiuderlo. Scegliamo dunque queste veloci impressioni come incipit, cercando di procedere con gli strumenti del racconto e dell’analisi, provando a coniugare la necessità della ricostruzione con il tentativo di una contestualizzazione sia estetica che più genericamente allacciata alle vicende del teatro e della danza di ricerca italiani degli ultimi anni. Adotteremo dunque uno sguardo cronologico, partendo dal primo spettacolo per arrivare all’ultimo, con pause diacroniche che speriamo possano illuminare alcuni nodi legati al fare danza oggi in Italia.

Due corpi e una traccia audio che evoca immagini sonore. gruppo nanou (Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, anche compagni di vita, performer e coreografi, e Roberto Rettura, sound designer e fonico) si conoscono e iniziano a frequentarsi artisticamente fra il 2003 e il 2004, grazie a esperienze e situazioni (sulle quali torneremo) che li spingono a credere nella possibilità di creare un progetto comune. La migliore introduzione alla loro poetica ci pare essere la descrizione del primo spettacolo, Namoro, che debutta nel 2004. Due corpi: un uomo immobile sul fondo e sempre di spalle imbastisce un tessuto vocale che sfugge al significato, costruito da frammenti ai quali ci si aggrappa andando in cerca di immagini (udiamo parole come «sogno», «innamoramento», «voluttà»…); una donna è impegnata a costruire figure a cavallo fra movimento quotidiano e atletismo: camminate concentriche all’indietro, verticali oblique, momenti di stasi con la testa abbandonata fra le ginocchia, subitanee accensioni ritmiche con le braccia a creare veloci rotazioni nell’aria, repentini ‘congelamenti’ come a bloccare e forse studiare l’origine nel movimento. Nel frattempo, la traccia sonora sporca la temperatura con grattamenti e interferenze, ma evoca anche alcune immagini prettamente narrative (una passeggiata, una porta che si apre). Sottotraccia operano i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, con il ‘namoro’ descritto dalla stessa compagnia come il «periodo di relativa intimità che di solito precede il fidanzamento ufficiale»,[1] e ripreso dall’introduzione di Antonio Tabucchi alle Lettere alla fidanzata di Fernando Pessoa. Il primo spettacolo, dunque, pare essere di per sé una dichiarazione di poetica, e la tentazione di rileggerlo come un’iniziale messa a punto dei propri mezzi è adesso forte. Almeno pensando all’idea di un corpo che si situa al punto di intersezione fra ‘presentazione’ del proprio esserci e ‘rappresentazione’; almeno nel desiderio di agganciarsi a molteplici riferimenti di origine letteraria, ma anche visuale e cinematografica, se pensiamo per esempio alle stilizzazioni di un Giacometti, dichiarate come fonte di ispirazione diretta per la ricerca sul movimento di Rhuena Bracci;[2] infine, almeno nella tensione del sonoro a evocare un ‘fuori-scena’ che alimenta il racconto, diventando in alcuni passaggi addirittura l’unico elemento a farsi carico di precise referenzialità mimetiche. Namoro, e così gruppo nanou, è la risultante di queste e altre istanze, che trovano un loro momento di ‘coincidenza’ in spettacoli progettati come architetture in cui la drammaturgia alterna vuoti e pieni, chiamando chi guarda a costruire i propri spazi. Scrive Chiara Alessi:

Perché i passi che udiamo avvicinarsi o le porte aprirsi ci fanno solo immaginare corpi che si uniscono: l’immaginazione contrasta con ciò che c’è di fronte, sulla scena, in realtà. Esattamente come nell’innamoramento, sospeso sulla soglia che distacca per un attimo da terra prima di precipitarci ancora più pesanti, che ci obbliga a guardarci, che ci insegue come un riflettore su noi stessi senza lasciar scampo.[3]

Se possiamo considerare Namoro una sorta di prologo, da Desert-Inn (2006) in avanti gruppo nanou inizierà un discorso tuttora in atto, che potremmo per comodità suddividere in tre fasi: una prima fatta di frammenti (che comprenderebbe anche Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla]), una seconda nella quale si manifesta con compiutezza una proposizione poetica (dal 2008 al 2011, con il progetto Motel) e una terza che ha aperto una direzione di complessità e di ‘bilico’ (Da Sport al progetto Dancing Hall al nuovo J.D., passando per Strettamente Confidenziale). Ci sembra comunque, e lo vedremo di opera in opera, che il percorso di nanou possegga una coerenza e originalità tali da poterlo ascrivere nel novero di quelle poetiche che legittimano una storicizzazione. Una poetica dunque connotata da elementi che ricorrono, innervata fra l’altro da percorsi di trasmissione declinati in laboratori e progetti scolastici.

Dopo l’abbozzo tentato a proposito di Namoro, se dovessimo enucleare un altro elemento che ricorre nel lavoro di nanou diremmo della presenza di personaggi in bilico fra narrazione e astrazione, figure che ritornano di opera in opera, sebbene con caratteristiche differenti. La qualità di questi ‘personaggi depotenziati’ fa sì che da Desert-Inn in avanti ogni spettacolo contenga in nuce i prodromi di quello che lo seguirà, in un procedere poetico che davvero ha l’andamento di un discorso. In Desert-Inn, ispirato al memoir I miei luoghi oscuri di James Ellroy (che è un po’ anche cassetta degli attrezzi del genere noir), ci sono quattro uomini in pantalone scuro e camicia bianca, c’è una donna in vestito da sera, ci sono corteggiamenti accennati, movimenti delle braccia e camminate come a perimetrare una scena del crimine, c’è l’assassinio della donna con gli uomini che saltellano, camminano a passettini, dondolano sulle ginocchia. C’è un buio improvviso con pile calate dall’alto a illuminare porzioni del corpo femminile (una scarpa, il viso, la schiena), in un rompicapo coreografico che pare invitarci a sciogliere l’enigma. Possiamo scoprire chi è l’assassino, se il piano temporale esplode, se il racconto nega consequenzialità e causalità? Nati e cresciuti dentro una società dello spettacolo aggiornata al trentennio berlusconiano,[4] i nanou sembrano diffidare della linearità del racconto, non si fidano dell’intrattenimento e chiedono a chi guarda di scegliere, di farsi carico dei ‘ganci’ proposti e di portare avanti in autonomia la narrazione come di fronte alla molteplicità di elusioni di un quadro di Bacon. E come potrebbe essere altrimenti, aggiungiamo noi? Per fidarci di un racconto lineare, che non si pone domande sulla sua stessa sostanza, dovremmo in effetti sconfessare i ritrovati di ormai due secoli di estetiche e di teorie dell’arte, partendo dalle avvisaglie del XIX secolo – che già sabotavano la possibilità di una linearità – per attraversare la crisi del soggetto e gli sconquassi definitivi del Novecento.

Questi quattro uomini, e le loro azioni indecise fra astrazione e gestualità mimetica, preannunciano la venuta dei due ‘figuri’ di sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla]. Dopo essere stati di fronte alla ‘scena del crimine’, veniamo ora trasportati in quella che assomiglia a una ‘mente del crimine’: corpi che tendono a figurazioni non antropomorfe o animali (debitrici di Kakfa?), passeggiate sulle mani, inarcamenti della schiena che producono appoggi ribaltati e quadrupedi. Fra gridolini mefitici e urla spasmodiche, viene illuminata la schiena dell’uomo che regge una lavagnetta con scritti messaggi in codice («Ho il tuo gatto»), mentre l’audio punteggia questo ‘impero della mente’ con rumori bianchi amplificati e ossessivi inneschi di qualche meccanismo elettrico. Non a caso evochiamo qui l’opera di David Lynch, a cui la compagnia deve una generale temperatura da Loggia Nera, ma anche specifici dettagli come le luci al neon intermittenti che connotano la visione, come il tema sonoro di Twin Peaks utilizzato nel finale, come la scatola blu che emana luce propria e che pare custodire il vocabolario utile per decrittare la grammatica degli eventi (come accade in Mulholland Drive). Le ‘tracce verso il nulla’ del titolo crediamo siano anche quelle di un fraseggio coreografico che punta a rendersi irriconoscibile, che si destruttura nell’esatto momento in cui viene applicato: «Siamo all’inseguimento di una storia, di un evento che non smette di accadere. E non sappiamo di che cosa si tratta», così iniziava una recensione di Serena Terranova.[5] Tenendo a mente questa considerazione potremmo procedere negli sviluppi successivi della poetica di nanou.

2. Primo interludio: Fare danza in Italia, Aksè, E, Festa

Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura si conoscono grazie alla frequentazione di un ambiente comune, quello afferente alla scena performativa di ricerca italiana. Marco Valerio studia alla Paolo Grassi di Milano, Rettura è un fonico e musicista attivo nella scena indipendente bolognese, entrambi parteciperanno allo spettacolo Iliade di Teatrino Clandestino.[6] Rhuena Bracci è ginnasta e danzatrice, collabora prima con la Compagnia Bassini-Bruni e poi con la Compagnia Monica Francia. Dopo essere giunti alle semifinali del Premio Scenario (realtà quest’ultima con oltre vent’anni di storia alle spalle, una delle poche in Italia impegnata in un concreto accompagnamento a gruppi emergenti) i nanou si iscrivono al Premio GD’a, Giovani Danz’autori dell’Emilia-Romagna, risultando con Namoro vincitori dell’edizione 2004/2005 a pari merito col gruppo Le-Gami del coreografo Luca Nava. La loro storia nel sistema teatrale e della danza potrebbe partire da qui, sebbene questo sia già il frutto di un percorso pregresso nel quale va posto l’accento sul nomadismo formativo che in Italia accomuna molti. Chi vuole studiare danza ha infatti di fronte poche strade. Si possono scegliere alcune scuole o accademie, col rischio di ‘normalizzare’ le proprie ansie accontentandosi di pacchetti che nel migliore dei casi mettono in forma fisico e mente adatti per movimenti ed estetiche specifici; si può decidere di emigrare, per studiare in alcune scuole di danza estere presso grandi maestri della ricerca; oppure si può scegliere di frequentare laboratori e workshop, di assecondare una vocazione alla ricerca che deve alimentarsi di un apprendimento costante e differenziato. È questo il caso di gruppo nanou, che a Ravenna coglie le occasioni offerte dall’Associazione Cantieri (realtà che farà nascere negli anni festival, reti, premi a sostegno della danza d’autore) e decide di restare in Romagna probabilmente anche grazie al lavoro dei ‘fratelli maggiori’ come la Socìetas Raffaello Sanzio o Fanny&Alexander, di realtà di sostegno come il centro per residenze l’Arboreto di Mondaino, di poli dell’immaginario quali il Festival di Santarcangelo e di compagni di viaggio come il gruppo forlivese Città di Ebla. Per assecondare tale spirito di conoscenza, e in assenza di sponde legate alle istituzioni in grado di offrire un sostegno reale (almeno in una prima fase di lavoro), il gruppo mette in moto un’operazione che, se ripensata oggi, ha qualcosa di eccezionale. Si tratta di un progetto per compagnie di danza e di teatro denominato Aksè, una «residenza creativa e non espositiva» dove alcuni gruppi condividono la vita quotidiana per una settimana o dieci giorni utilizzando lo stesso spazio teatrale, abitato in orari separati. Ci sono poche semplici condizioni: chi lo desidera può tenere aperto il proprio spazio prove; durante i momenti conviviali vengono attivati confronti collettivi su alcuni problemi e sfide legati alla creazione; regolarmente sono invitati dei ‘maieuti’, figure in grado di intervenire nelle discussioni per accelerare la messa a punto di domande e risposte.[7] Questa proposta dimostra una vocazione all’autoformazione spiccata, una fame di conoscenza rivolta a prassi, poetiche e punti di vista sul lavoro scenico diversi dal proprio, una capacità sempre più rara di guardare oltre al proprio orticello e così di lavorare per sé e per gli altri. Un altro episodio nella storia di nanou ispirato a simili principi è stata la decisione di fondare nel 2011 la cooperativa E, su impulso della compagnia Fanny&Alexander e insieme a Menoventi ed ErosAntEros, realtà quest’ultima che di recente ha scelto di abbandonare il raggruppamento. Si tratta di un sodalizio amministrativo e organizzativo che sta tuttora provando a immaginare percorsi collettivi in tempi di spiccati individualismi, sia pensando a questioni di ordine pratico (con la scommessa di semplificare strutture amministrative e organizzative) sia tentando di porsi domande di ordine estetico, ferme restando le autonomie dei singoli gruppi. La E, infatti, ha gestito nell’ultimo triennio (2013/2015) una parte della stagione Ravenna viso-in-aria, concertando una programmazione di eventi, incontri, presentazioni, spettacoli, laboratori[8] e organizzando Fèsta, un festival curato e organizzato collettivamente negli spazi della Darsena di città e delle Artificerie Almagià, spazio multifunzionale dato in gestione dal Comune in un primo momento a Fanny & Alexander e in seguito alla Cooperativa E.

Aksé e la Cooperativa sono esperienze che, in modi diversi, ci dicono della vocazione a sollecitare azioni che nutrano il proprio territorio e il proprio ambiente artistico e professionale, e segnalano quanto l’autonomia e la ricerca siano condizioni da guadagnarsi e non tanto etichette da indossare. Quando le basi di partenza sembrano tutte remare contro i progetti che si hanno in mente, quando il paese in cui si vive pare ostacolare sia le imprese collettive che i desideri di autonomia, si può scegliere di adattarsi restando nei piccoli varchi che altri hanno costruito per noi, raccogliendo le briciole. Oppure si può decidere di provare a inventare quello che ancora non esiste, dando corpo e gambe alle proprie visioni. Si può anche perdere, in questi casi, e vedere i propri sforzi vanificati a causa di contesti impreparati e conservativi. Ma, anche se si perde, resta la certezza di avere fatto esistere delle possibilità che prima non c’erano, di avere creato le condizioni minime affinché qualcun altro le riconosca e così sia in grado di coglierle e rinnovarle.

3. Faccende personali: Motel

La trilogia Motel si sviluppa dal 2008 al 2011. Dopo avere saggiato i limiti e le possibilità del corpo e della mente nei precedenti spettacoli, ora i nanou studiano tensioni e relazioni di uno spazio quotidiano sottilmente sabotato. Tutto appare normale, a prima vista, ma niente è come appare, se si prova a guardare di lato o sotto. Motel segna anche una progressione produttiva, dal momento che il progetto ottiene il sostegno di importanti strutture nazionali (per esempio Fabbrica Europa a Firenze, il bando Fare Anticorpi dell’omonima Rete emiliano-romagnola, il Teatro Comunale di Ferrara) e permette al gruppo di fare i conti con pubblici allargati e di abbandonare, almeno in parte, l’endemica condizione di autoproduzione che accomuna la maggior parte dei gruppi di danza e di teatro emergenti. Si parte da una Prima Stanza che riproduce un salotto con al centro un tavolo, vero fulcro della vicenda: cadute e sprofondamenti come se al suolo vi fosse un buco nero che attrae ogni fonte di energia, il tappeto che viene risucchiato dalla mobilia, l’uomo che s’infila sotto la tavola ma ne esce la donna. Come nella Lettera rubata di Poe, tutto è apparentemente in ordine e non ci sono indizi a cui aggrapparsi per risalire a un accadimento che inquadri l’orizzonte degli eventi. Ma solo in apparenza. Dissolvenze al nero di stampo cinematografico giustappongono sequenze, così quello che noi vediamo dopo non sappiamo se sia accaduto prima, o se esista solo nella mente dei personaggi: lei distesa seminuda come dopo una violenza, loro frontali entrambi sul tappeto a guardare l’orizzonte col suono di gabbiani sul mare, o seduti al tavolo l’uno di fronte all’altra in attesa di un evento. Le luci di Fabio Sajiz ‘ghiacciano’ la temperatura, fermando lo scorrere del tempo in un’asepsi che polverizza gli accadimenti, mentre le immagini sonore di Roberto Rettura operano come un radiodramma che si affianca alla narrazione, riproducendo rumori di carta che viene stropicciata, il brusio di una radio, il tintinnio delle stoviglie di un locale. La Prima Stanza era stata introdotta da una figura con un cappello a cilindro in testa che svolgeva un rullo con frasi a noi destinate («tutto questo è stato preparato per te, ricordati di me»), mentre una donna rossa compariva dietro a un fondale bianco rivelando quanto questo interno fosse contenuto in un altro più grande, come una scatola cinese. Nella Seconda Stanza udiamo una voce off: «Non volevo svegliarti, ma c’è qualcosa che devi proprio vedere». Qui le luci sono calde, la stanza è arredata con un divano, con una lampada ad arco e un tavolino di vetro. Mentre le azioni della Prima Stanza sembravano mostrare una coppia in preda a nevrosi personali, ora il fraseggio coreografico allude a una relazione di coppia affettiva, forse morbosa. Tonfi elettronici ritmano la visione, li ricondurremo in seguito a colpi, ovviamente fuori sincrono, che lui e lei infergono a una massa scura a terra. La funzione di ‘attraverso lo specchio’ viene qui assolta da un divano, rivolto di spalle al pubblico ma con uno specchio di fronte che rivela una realtà raddoppiata, mostrandoci la rappresentazione di una rappresentazione, con tinte velazqueziane. Scrive Andrea Nanni:

Qualcosa sta per succedere, qualcosa è appena successo, qualcosa sta succedendo sotto lo sguardo opaco del ragazzo in livrea addetto al servizio in camera, che mentre rassetta la stanza scopre una parete di specchi rivelatrice di particolari altrimenti inaccessibili agli spettatori.[9] Qualcosa sta per accadere o è accaduto, e gradualmente monta la sensazione che non lo vedremo mai. C’è sempre una parte mancante, ci sono dettagli che ‘non tornano’, come se questa ambizione di rinchiudere il mondo in una stanza fosse destinata a un inevitabile (e progettuale) scacco. Ombre in movimento e a cadenza regolare bagnano lo spazio, come se il traffico di una highway scorresse ignaro al di fuori e le sue luci artificiali penetrassero da una invisibile finestra dietro noi. Avremo forse sbagliato punto di osservazione? Ci coglie netta una sensazione: anziché dentro, dovremmo forse guardare fuori? Si arriva così alla terza stanza, Anticamera. L’ultimo episodio non serve a spiegare, non fornisce chiavi, ma acuisce la sensazione di un labirinto concettuale nel quale lo spazio all’improvviso si svela più grande di quanto avevamo pensato. Credevamo di avere visto qualcosa, di avere capito, ma all’improvviso ci svegliamo dal nostro sogno. Da Motel in avanti, le scene di gruppo nanou si riempiono di strumenti che ritagliano lo spazio, atte a ‘contenere’: gabbie per uccelli, portavivande, sezioni di stanze, pareti di vetro. Così nella terza stanza c’è un cubo con una donna all’interno che saggia le possibilità di appoggio di piedi, delle gambe e delle braccia, cercando un centro di gravità; le pareti del cubo sono coperte da una tappezzeria da parati che assomiglia alle stanze precedenti, come fosse una miniatura di ciò che abbiamo visto. Ora un uomo con il cilindro chiude con un pannello la superficie aperta del cubo (un boccascena?), occludendo la visione. Maggiordomi eseguono passi di balli da sala, un controluce improvviso c’invita a prestare attenzione (come nella Seconda Stanza) e le figure camminano all’indietro, inanellando passettini circospetti.[10]

Edward Hopper, Raymond Carver, Haruki Murakami e ovviamente David Lynch. La critica italiana ha usato questi e altri riferimenti per discutere di Motel, e a questi noi potremmo aggiungere le atmosfere rarefatte e silenziose di Kim Ki-duk, i contorni impossibili fra figure e sfondi di Escher, l’iperrealismo che gradualmente si sfalda in un presente atemporale e pieno di simbologie della Tragedia Endogonidia di Castellucci. Anticamera, «il vero e proprio limbo in cui sogno e realtà si lambiscono i margini a vicenda»,[11] si era aperto con la donna che entrava e guardava lo spazio e gli spettatori. Forse sapendo ciò che l’avrebbe attesa, aveva scelto di entrare nel cubo, di varcare la soglia, di imboccare una ‘strada perduta’, mentre una struggente Elisabeth Fraiser si chiedeva cantando «Ho sognato che mi sognavi?». Dalla Loggia Nera non si esce, le volute della mente del protagonista di Memento di Cristopher Nolan porteranno a un vicolo cieco. Eppure non possiamo fare altro che cercare un ordine, una logica, una risposta. Malinconici, senza sapere bene che cosa abbiamo perso, ora siamo pronti per vedere cosa c’è dopo, accompagnati da un maggiordomo che danza da solo nel ritaglio rotondo di una luce a occhio di bue, liberandoci – forse – dall’ansia di volere ricostruire tutto.

Motel – © Laura Arlotti

4. Secondo interludio: la danza in Italia

Discutere di gruppo nanou parlando ‘solo’ di danza, nell’Italia delle arti sceniche odierne, ci costringerebbe a restringere eccessivamente la focale su orizzonti disciplinari che da tempo chiedono di essere considerati nella loro molteplicità. Non sarà un caso che i pochi tentativi di tracciare dei racconti complessivi si siano dovuti confrontare con una irriducibilità di fondo, come se a differenza dei movimenti delle arti sceniche del passato sia oggi molto difficile individuare tendenze, filoni, estetiche che accomunino diverse poetiche. Si tratta di un dato di fatto che non può essere eluso, una precondizione certamente da mettere in discussione ma che allo stesso tempo deve interrogarci, se non vogliamo osservare il presente con strumenti appartenenti al secolo scorso, e produrre così fotografie già superate nel momento stesso in cui si tenta di scattarle. Come parlare di danza senza considerare l’influenza almeno delle arti visuali, del cinema, della letteratura, della musica, del fumetto? Come osservare la danza senza considerare le vicende del teatro di ricerca italiano del secondo Novecento, e viceversa? La polifonia in atto ci consiglia dunque delle messe a fuoco puntuali che al contempo possano avvalersi di un’osservazione contestuale, che sia in grado di riferirsi al panorama in cui una disciplina si muove, pensando alle altre arti e anche a ciò che arte non è.

Abbiamo già evocato il concetto di ‘Iperscene’, introdotto nell’omonimo libro da Mauro Petruzziello, utile per avere qualche coordinata di partenza nella tensione dei gruppi a mescolare ruoli e competenze, nel sommare immaginari di provenienza disciplinare differente (e spesso estranea alla tradizione coreutica), nel dare particolare rilievo al valore drammaturgico del suono. Facendo un passo avanti nel delineare tratti comuni fra le estetiche, Fabio Acca introduce invece il concetto di ‘Performing Pop’,[12] individuando una specifica attenzione di alcuni gruppi alle risonanze con i sistemi mediali di massa, descrivendo una tendenza ad abbattere le tradizionali dicotomie di stampo novecentesco come attore/spettatore, vero/finto, reale/rappresentato, in una scena definitivamente mutata e divenuta transmediale e transdisciplinare. Si tratta, in tutti i casi, di un panorama costituito da monadi, da punti che rappresentano una minoranza ostinata[13] che difficilmente si può descrivere in maniera unitaria, se non nel tentativo che sta alla base di fuggire da una ingenua e facile rappresentazione, che presterebbe troppo il fianco al confondersi con i discorsi pubblicitari e televisivi. Fatte queste premesse, si osserva un panorama che è stato definito della ‘Danza d’Autore’, termine di ascendenza cinéphile atto a descrivere il tentativo di mettere a punto idioletti corporei e coreografici personali, situati un passo dopo le variazioni creative degli interpreti e un passo prima dal diventare ‘scuola’ o ‘tecnica’, come accade nella danza quando una serie di prassi e figure si cristallizzano in metodi in grado di essere insegnati e trasmessi (Nikolais, Contact Improvisation…).[14] Un panorama nel quale resta forte la predominanza di orizzonti visuali, anche a livello di riferimenti di immaginario. Si tratta di ricerche dove si attraversano, si masticano, si ‘stressano’ le immagini al punto da bucarle, forse per colmare un’assenza paradossalmente prodottasi per eccesso di visibilità.[15]

In che modo, allora, guardare alla danza italiana degli anni zero, e in particolare al percorso di gruppo nanou? Secondo Alessandro Pontremoli, in Italia saremmo ormai giunti a una terza generazione della cosiddetta danza contemporanea.[16] Dagli anni ’90 in poi gli artisti della danza contemporanea avrebbero iniziato a mettere a punto nuove identità del corpo e della scrittura coregrafica, facendo direttamente i conti con i prodotti dell’industria culturale, con la pervasività della comunicazione, con il potere dei media. Dal corpo come scrittura in grado di forgiare nuove identità in tempi di immaginari colonizzati di MK alla decostruzione di ogni potere di Kinkaleri, compreso quello della rappresentazione. Si tratta di due soli esempi in un tessuto di influenze e relazioni la cui ricostruzione prenderebbe troppo spazio, qui possiamo citare solo alcuni altri gruppi coetanei come Città di Ebla, Santasangre, pathosformel, muta imago che per i nanou rappresentano dei compagni di viaggio, anche in virtù di sensibilità estetiche affini. Per collocare i discorsi di gruppo nanou in un più generale panorama delle arti performative di ricerca, descriveremmo una tensione a mettersi ‘di lato’ ai discorsi sul ‘rappresentato’ che pervade anche le creazioni della compagnia ravennate, come se fra le responsabilità dei gruppi emergenti vi fosse quella di non voltare lo sguardo rispetto alla società mediale e connessa, di prendere alla lettera i suoi tic, le sue ansie, i suoi diktat relazionali in un atteggiamento che vuole conservare una componente di sospetto sufficiente per mimetizzarsi senza confondersi.

5. In bilico nella rappresentazione: Sport, Dancing hall, Strettamente confidenziale

Nel 2011 debutta Sport, che vira con decisione dalle atmosfere di Motel per inaugurare un discorso fino a quel momento rimasto sottotraccia. Si avverte l’esigenza di ‘liberare’ il movimento dalle sue strutture narrative, asciugandolo fino a un ipotetico grado zero. Una struttura a cubo fatta di tubi viene usata da una ginnasta per esercizi alle parallele: la donna prepara la struttura con il talco, sospira, attende. Udiamo i suoi respiri amplificati, poi i rumori di un’arena sportiva. Cori, applausi e altri residui sonori di eventi che sono avvenuti o che avverranno ma che non sono qui ed ora, di fronte a noi. La ginnasta esegue un esercizio di molleggiamento su gambe e glutei, con felpa e cappuccio sulla testa. Un istante prima della rappresentazione, della finzione e della narrazione c’è anche questo, sembra dirci gruppo nanou, sostando nel paradosso del dare forma a qualcosa che non dovrebbe essere mostrato, perché proviene da un alfabeto di azioni e ritualità tecniche finalizzate a una preparazione e non a un’immediata esposizione. In quegli istanti di tensione, in quel silenzio dell’atleta poco prima della gara, sembra emergere una domanda che tutti gli sportivi, in qualche momento, probabilmente si sono dovuti porre: ci si prepara per essere efficaci o per arrivare alla perfezione del gesto? Scrive Carlotta Tringali che «la pausa dell’essere, solitamente impercettibile, in Sport si dilata e si mostra facendo comprendere come in fondo sia proprio in quel frattanto che l’azione acquista una possibilità significante […]».[17]

Questo stare nel mezzo si riflette in una forma che abita il bilico fra presenza astratta e narratività, ipotesi rappresentativa che da Sport si propaga nei progetti Dancing Hall e Strettamente confidenziale.

Lo avevamo intravisto nell’ultima parte di Anticamera, quando una delle inquietanti presenze che parevano conoscere e manovrare la sintassi dei movimenti prendeva a ballare da sola, mettendosi in evidenza in un tondo di luce. Ora ha dismesso le vesti da maggiordomo, tende braccia, tronco e arti inferiori in pose da rockstar, che in altro contesto potrebbero somigliare alla messa in mostra muscolare di un culturista, o allo studio sull’atto sportivo bloccato in gesto della statuaria classica. Fumo in sala, la voce profonda psichedelica di Dirty Beaches canta Lord Knows Best, accompagnata dal suo inquietante pianoforte onirico. Scrive gruppo nanou che Dancing Hall è una partitura coreografica [che] si costruisce a partire dai balli da sala scomposti in segni che, nella ri-composizione coreografica totale, danno vita ad un nuovo universo. La gratuità del gesto che si offre allo sguardo. Un atto preciso, esatto, necessario. Della sala da ballo (Dancing Hall) resta la leggerezza del gesto. Qui e ora un paesaggio del corpo si crea, in contrappunto con l’azione del suono e della luce.
In particolare a partire da questo nuovo ciclo (2012-2013), gruppo nanou inizia a procedere per progetti che si manifestano con occorrenze spettacolari che assumono nomi diversi a seconda dei contesti. Dancing hall nasce con il nome di Just one night – On Air, si colora di presenze shakespeariane diventando Cherchez la femme!, attraversa serate di tango comparendo fra le coppie che ballano in Dance dance dance. Le sue ‘figure’ però ricorrono di spettacolo in spettacolo. Tre maggiordomi in livrea verde attraversano lo spazio sul fondo e calpestano una striscia di luce che taglia la sala da parte a parte. Portano vassoi, drappi, teste di cinghiale. Camminano attraverso microscopici passettini. Piegano le braccia come ad afferrare qualcosa, si coprono il volto con le mani guantate, danzano sincronicamente in una parvenza di fraseggio coreografico che mette in evidenza i passi di alcune danze ‘sociali’. Le forme di tango, foxtrot ecc. sono estrapolate dal loro contesto, eseguite dagli uomini senza la partner femminile e dunque osservabili nella loro intelaiatura, come forme disseccate. Aleggia comunque la sensazione che nell’orizzonte degli eventi manchi qualcosa, che un presagio di oscurità incomba sulle azioni e che il tempo sia ‘fuori sesto’, per dirla con Philip K. Dick e anche con Shakespeare («The time is out of joint», afferma Amleto). Ci asseconda in questa sensazione Cherchez la Femme!, che aggrega a tale immaginario alcuni rimandi alla vicenda di Amleto: una donna che di tanto in tanto compare vestita da sera con indosso una maschera da animale fantastico, alcuni separé di raso gradualmente allineati sul fondo a ricordare forse il muro di cinta per la comparsa dello spettro Amleto Padre, uno dei maggiordomi che si libera della livrea e svela una t-shirt bianca sulla quale è disegnato un teschio nero. Una batteria jazz felpata e un lontanissimo sibilo di un clarino colorano l’ambiente e anche qui i maggiordomi ballano da soli, prima dell’immagine finale che ci riporta alla donna-Ofelia e all’uomo-Amleto distesi a terra, senza vita apparente. Per aggrapparsi a un racconto, la mente torna alle presenze misteriose di Motel: si ha la sensazione che i maggiordomi abbiano guadagnato il centro della scena… finalmente sono loro a farci vedere quello che vogliono! Ma è un attimo, perché a imporsi questa volta sono le evoluzioni dei corpi persi in passi di tango, di tip tap, valzer. Se dovessimo dire che cosa resta, ora non avremmo nessun dubbio: è la danza. Di fronte a noi Marco Maretti, uno dei danzatori di più lungo corso della compagnia. Il personaggio per lui è una pellicola trasparente che può essere indossata, che può celare ed evidenziare nello stesso tempo i gesti e il movimento, in sequenze controluce che permettono di indovinare alcuni passaggi di un segno coreografico più ‘libero’ che in passato.

Per introdurre Strettamente Confidenziale (2013/in corso) lasciamo la parola a Marco Valerio Amico, riprendendo le seguenti dichiarazioni da una breve ma significativa videointervista di Claudio Martinez in occasione di una replica alla Fondazione Volume di Roma: «È un progetto che ogni volta cambia desinenza, perché ogni volta incontra una spazio diverso. Vengono scelte diverse coreografie e vengono create diverse situazioni, per cui si tratta realmente ogni volta di un debutto».[18]

La sua prima apparizione è avvenuta a Ravenna in occasione di Fèsta, maggio 2013, assumendo poi nuove desinenze e declinazioni in contesti disparati (ricordiamo qui 1914 al Ravenna Festival nel giugno 2014, Camera 208 a Teatri di Vetro e La finestra sul cortile al festival Aperto di Reggio, entrambi nel settembre 2014). Ci si muove nello spazio e lì si ‘incontrano’ frammenti performativi collegati da rimandi a un immaginario che li accomuna senza uniformarli, costringendoci a ripensare alla nostra stessa ansia di tutto vedere e tutto ricondurre a unità e raziocinio. Ci sono due pupazzetti che guardano una tv seduti su un divanetto in miniatura, saliamo delle scale e incontriamo i maggiordomi fermi sulle loro poltrone. Una donna giace al suolo solitaria, non è chiaro perché ma ci appare disperata, dismessa, è illuminata da una pila che scende dal soffitto. Altrove si accendono luci fortissime, i maggiordomi danzano in trio e si stagliano in controluce, noi vediamo solo la filigrana delle loro silhouette. Spostandoci, ci accorgiamo di guardare spesso attraverso vetri e pareti diafane, a volte sono specchi che ci permettono di vedere ciò che resterebbe celato (come nella Seconda Stanza di Motel), altre volte ci fermiamo di fronte a un vetro e osserviamo un maggiordomo che guarda uno schermo, mentre siamo a nostra volta osservati da una figura che silenziosamente si è installata alle nostre spalle. Siamo noi a essere ‘sognati’ e ‘rappresentati’? Come nei vortici temporali di Inland Empire di David Lynch, sospetteremo a un certo punto di essere i personaggi di un racconto, di essere guardati da una ragazza che piange? Ci spostiamo ancora, cercando di connettere frammenti. Incrociamo la sezione di una stanza, di nuovo un mondo dentro un mondo, una metonimia contenuta nella più generale metonimia che è lo spettacolo stesso. Lì dentro una ragazza si inarca, si adagia sulla schiena ma con le gambe tese e le braccia sollevate, il suo volto è celato da capelli che nascondono l’identità; nella stanza accanto alcune ragazze indossano una sottoveste color avana, eseguono una semplice partitura di gesti in loop, come statuine di Vanessa Beecroft che abbiano acquisito il diritto al movimento, preludio del nuovo discorso contenuto nel progetto J.D. A cosa abbiamo assistito? Cosa ho visto io, e che cosa la persona che con me ha partecipato a Strettamente Confidenziale? Scrive Massimo Marino:

Si viaggia tra ombre del quotidiano, proiezioni e sviluppi di figure geometriche, trasparenze di veneziane che ricordano vecchi spettacoli dei Magazzini Criminali, sogni di sogni, luci che provenendo dalla serratura di una porta rivelano minuscoli dettagli, cartelli che aprono orizzonti concettuali, atmosfere, televisori in funzione o vuoti, spenti, monumenti del nostro passato, e molto altro, in un labirinto che ti fa spettatore e all’improvviso ti trascina dentro, verso regioni intime, coperte, misteriose.[19]

Cristallina dimostrazione di come ogni contenuto chiami a sé una sua peculiare forma, Strettamente confidenziale è il ritrovato di un percorso decennale che ha saputo fare proprio il necessario superamento della linearità del racconto, ma anche la ormai manifesta inattualità di una finzione che non si ponga domande sulla sua stessa esistenza. Strettamente confidenziale crea così un ‘paesaggio performativo’ con echi a forme ed esperimenti provenienti dalla tradizione del Nuovo Teatro rielaborando al contempo le proposte di tanta estetica relazionale,[20] ma in una cifra autonoma: si tratta da un lato di un’arte immersiva attenta a non varcare quella soglia che impedisce l’esercizio di un’attenzione critica, ma allo stesso tempo, nelle maglie del racconto, emerge un discorso sui mezzi e sulle possibilità dell’arte stessa che evita di risolversi in una semplice e troppo spesso sterile analisi del proprio statuto finzionale.

6. Epilogo: prestare attenzione alle conseguenze della danza (J.D.)

Sono fraseggi che sentiamo di non potere afferrare. Al centro della scena una struttura metallica quadrata, formata da quattro archi rettangolari che si congiungono. Sotto alle sue volte, al centro, sta una poltroncina rossa. Sembra la metonimia di una grande voliera o di un gazebo, oppure semplicemente è un vistoso oggetto di interior design. In John Doe (che ha debuttato nel dicembre 2014 a Pubblico, teatro comunale di Casalecchio di Reno) una donna con un abito dal sapore retrò si muove assecondando uno swing di piroette, una coppia di ragazze molleggia sulle gambe e ondeggia il bacino accompagnando braccia e mani che si sollevano e si congiungono dietro la nuca. Un fruscio disturbato in audio diviene percussivo felpato, preludio a una melodia di accordi di chitarra elettrica che conferisce alla visione il sapore della perdita, dell’immagine che sfugge. Un lento e obliquo rotolamento a terra, una sequenza di gesti frontali spigolosi, irosi, quotidiani. Le gambe si flettono e si stendono diritte con i fianchi adagiati sulla poltroncina, si accennano verticali e ‘ruote’; il tronco s’inarca e si mostra girato di schiena, avanzando lentamente, celando il volto. Salgono dei lievi rintocchi come di campane tibetane e le sequenze mostrate si ripetono. ‘John Doe’ è l’appellativo attribuito nel gergo giuridico statunitense quando non si può o non si deve risalire all’identità, come nel caso del ritrovamento di un cadavere.

Non vogliamo qui cadere nella tentazione dell’interpretazione e leggere in queste sequenze orditi kafkiani, trasfigurazioni animali, mutazioni orrorifiche. Ci basti, per adesso, dato che il progetto è in corso, sostare su un’impossibilità che produce un loop, su una ricerca identitaria destinata allo scacco che si traduce in ripetizione, ossessione, nevrosi dell’identico.

Difficile fare progetti per il futuro. J.D., come il primo Namoro, è in grado di parlarci del percorso stesso di gruppo nanou, e forse anche del modo in cui oggi, in Italia, si provano a costruire opere restando ai margini di un sistema dello spettacolo magnetico e sovraccarico, esausto e attraente, tentando di intercettarne alcune istanze pur in una cifra che non può che restare minoritaria. Annotazione che vale anche per le arti performative e di ricerca, abitate da nanou rinnovando il proprio idioletto con l’ingresso in compagnia di alcune giovani danzatrici, inserite in quel particolare processo di trasmissione coreutico dove la coreografia non è un disegno chiuso col quale plasmare i corpi ma un discorso in divenire, che muta secondo le inclinazioni e le variazioni di chi ‘porta’ la danza. Viene allora da pensare che negli spettacoli di nanou in futuro la danza potrebbe prendere il sopravvento, facendo arretrare le imposizioni di una coreografia che preme per fare chiarezza tracciando confini, marcando posizioni, illuminando zone d’ombra. Oppure potrebbe essere il disegno coreografico e narrativo a volere prevalere, privilegiando stratificazione e progressione. C’è però anche una terza via che, come speriamo di avere dimostrato, è in cerca di equilibri, sospesa su un filo. È la via del paesaggio performativo di gruppo nanou, che anche in futuro seguiremo con la lente dell’osservazione, dell’analisi, della partecipazione.

1 Presentazione dello spettacolo su grupponanou.it. Dal momento che faremo ampio uso di citazioni e materiali desunti dal sito della compagnia, uno spazio con la funzione di notiziario sulle attività in corso ma anche un archivio ben organizzato sulle produzioni del passato, d’ora in avanti non indicheremo più in nota tale sito.
2 Un racconto esteso della gestazione del lavoro si trova in M. Petruzziello (a cura di), Iperscene: Città di Ebla, Cosmesi, gruppo nanou, Ooffouro, Santasangre, Roma, Editoria&Spettacolo, 2007, pp. 85-120.
3 C. Alessi, ‘Namoro o dell’indicibile fenomenologia dell’innamoramento’, Altre Velocità, settembre 2005, <http://www.altrevelocita.it/incursioni/5/lavori-in-pelle/7/2005/28/recensioni/182/namoro-o-dellindicibile-fenomenologia-dellinnamoramento.html>[accessed 8 june 2015]
4 Riprendiamo questa espressione da Goffredo Fofi, con la consapevolezza di avere vissuto anni che anche dal punto di vista delle arti, e più in generale dell’idea stessa di rappresentazione, verranno probabilmente ricordati come uno spartiacque. Una delle pubblicazioni più recenti in cui si descrive l’idea di trentennio è G. Fofi, Elogio della disobbedienza civile, Roma, Nottetempo, 2015.
5 S. Terranova, ‘Tracce di nanou’, Altre Velocità, settembre 2007 <http://www.altrevelocita.it/incursioni/5/lavori-in-pelle/9/2007/34/recensioni/218/tracce-di-nanou.html> [accessed 8 june 2015].
6 Spettacolo del 2002. Teatrino Clandestino è stata una delle compagnie di punta della ricerca teatrale italiana, appartenente a un raggruppamento di realtà definito dalla storiografia e dalla critica come ‘Teatri Novanta’ o ‘Terza Ondata’ . Il gruppo ha prodotto oltre venti spettacoli diventando un punto di riferimento per la scena emiliano-romagnola. Le ultime produzioni del gruppo risalgono al 2009. Dopo questa data, i due fondatori Pietro Babina e Fiorenza Menni decidono di sciogliere la compagnia e di procedere in autonomia, l’uno fondando la Mesmer Artistic Association e l’altra Ateliersi.
7 Cfr. M. Petruzziello (a cura di), Aksè. Vocabolario per una comunità teatrale, Mondaino, L’arboreto Edizioni, 2012.
8 Su invito del Teatro delle Albe e in collaborazione con le Albe stesse e con la Cooperativa Libra e Il Lato Oscuro della Costa, sodalizio quest’ultimo responsabile della gestione del Cisim, centro multidisciplinare con sede sulla costa ravennate, a Lido Adriano.
9 A. Nanni, ‘Nelle oscure crepe del quotidiano’, Hystrio, 3/2010, anno XXIII.
10 A proposito di ‘spazi con dentro spazi’, va citata anche l’installazione Interno del 2011, prodotta in collaborazione con Letizia Renzini e Antonio Rinaldi. Una superficie sospesa a un metro da terra ospitava l’immagine proiettata di una donna nella cattività di un cubo, osservabile dallo spettatore in piedi, dall’alto verso il basso. I suoi tentativi di trovare una misura in uno spazio così angusto terminavano con una rivelazione, quella del cubo e della donna in carne e ossa che comparivano sul fondo di una stanza di fronte a noi, facendo cortorcircuitare realtà e rappresentazione, finzione e verità. Nel 2014 viene prodotto invece Deserto Rosso, creazione collettiva a cura di Marco Valerio Amico e Luigi De Angelis dove tale meccanismo esplode creando un ambiente polifonico onirico con personaggi provenienti da diverse opere di nanou, di Fanny&Alexander, ErosAnteros, Menoventi e altri artisti ospiti. Vedi R. Sacchettini, ‘Miraggi nel deserto rosso, da Ravenna’, Altre Velocità, maggio 2014, <http://www.altrevelocita.it/teatridoggi/5/baci-dalla-provincia/242/miraggi-nel-deserto-rosso-da-ravenna.html> [accessed 19 giugno 2015].
11 S. Lo Gatto, ‘Motel. Tra sogno e corpo nella trilogia del Gruppo Nanou’, Teatro&Critica, 13 luglio 2011, <http://www.teatroecritica.net/2011/07/motel-tra-sogno-e-corpo-nella-trilogia-del-gruppo-nanou/> [accessed 8 june 2015].
12 F. Acca, ‘Performing Pop: 10 punti per un inquadramento teorico’, Prove di drammaturgia, 1/2011, pp. 5-12.
13 R. Sacchettini, ‘Minoranza Ostinata’ in ‘Dossier sulla danza’, Lo Straniero, 73, luglio 2006, pp. 78-80.
14 Per una trattazione più ampia del termine ‘danz’autore’ rimandiamo a Altre Velocità (a cura di), Giovane Danza D’autore, Azione e immaginazione da Cantieri a Anticorpi XL, Ravenna, Anticorpi edizioni, 2010 e a F. Acca, J. Lanteri (a cura di), Cantieri extralarge. Quindici anni di danza d’autore in Italia, Roma, Editoria&Spettacolo, 2011.
15 Concetti rielaborati da chi scrive e desunti da S. Mei, ‘Gli Anni dieci della nuova scena italiana. Un tracciato in dieci punti’, Annali Online di Ferrara-Lettere, VII 2 (2012), <http://annali.unife.it/lettere/article/view/598/666> [accessed 8 june 2015].
16 Dopo la ‘mitica’ nascita datata 1985, con lo spettacolo Il cortile di Sosta Palmizi. Per questa e altre storie si rimanda a A. Pontremoli, La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento, Bari, Laterza, 2004 e, dello stesso autore, ‘Il possibile e il cambiamento. Trent’anni di danza contemporanea in Italia’, in F. Acca, J. Lanteri (a cura di), Cantieri extralarge. Quindici anni di danza d’autore in Italia 1995-2010, Roma, Editoria&Spettacolo, 2011, pp. 115-136.
17 C. Tringali, ‘La pausa silenziosa di gruppo nanou’, Il Tamburo di Kattrin, 24/09/2011, <http://www.iltamburodikattrin.com/recensioni/2011/la-pausa-silenziosa-di-gruppo-nanou/> [accessed 8 june 2015].
18 gruppo nanou, Strettamente confidenziale – Camera 208, Teatri di Vetro 8, Settembre 2014, video di C. Martinez <Strettamente confidenziale: Camera 208 – video di Claudio Martinez> [accesed 8 giugno 2015].
19 M. Marino, ‘A Ravenna il nuovo teatro fa Fèsta’, Boblog-Corriere di Bologna, 12 maggio 2013, <http://boblog.corrieredibologna.corriere.it/2013/05/12/a-ravenna-il-nuovo-teatro-fa-festa/> [accessed 8 giugno 2015].
20 Cfr. N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Roma, Postmedia Books, 2010.

08/06/2015 - Lorenzo Donati, Arabeschi