Si agitano come mosche in un bicchiere. Figure sfumate come fantasmi sui bordi di luci incerte, rosseggianti o di ghiaccio anatomico. Adolescenti glamour, ginnaste, donne contorte in forme animali, figure androgine senza testa, ectoplasmi espulsi da una bocca-poltrona. Vive di lucide allucinazioni John Doe del ravennate gruppo Nanou, una creazione coreografica di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci vista al Teatro delle Passioni di Modena, intitolata all’appellativo che si dà negli States ai cadaveri senza nome: John Doe, cioè uno qualsiasi, un “tizio” che forse sogna, immagina figure di donna. Forse. Perché vive di Lynch, di Hopper in certi momenti, delle sospensioni cariche di presagi quotidiani e minacciosi di Carver questo spettacolo, intriso perfino nelle angosce delle Metamorfosi di Kafka.

Una poltrona rossa anni cinquanta-sessanta al centro della scena, sotto una geometrica struttura metallica. Rumori di auto, forse di pioggia, che si muteranno nell’incalzante colonna sonora di Roberto Rettura in accordi ricorrenti, come un mantra minimalista, sempre in trasformazione, ritmici ritorni di una storia sempre uguale, come le figure che si compongono e si dissolvono sotto gli occhi dello spettatore, nei bordi di luci incerte o dietro una tenda a fili che slabbra le immagini.

Il centro spesso è vuoto. Il fondo a volte sembra uno specchio sfumante, deformante. Sagome che paiono di spalle e sono di fronte. Luce rossa che diventa fredda, da obitorio, con ampie zone di ombra, di crepuscolo (bella invenzione di Giovanni Marocco), dove perlopiù si muovono le interpreti, le performer (Sissi Bassani, Alessia Berardi, Anna Basti, Anna Marocco, perfette), i corpi, in marce coreografate, in pose ginniche, in fughe verso figure di foreste animali selvaggi, di ragni, di insetti, di rettili, di precipizio dei piccoli gruppi danzanti o ginnici ben ordinati – da parata, da esposizione, da esibizione senza pensieri – nell’oscurità di forme in dissoluzione.

Lo spazio è il vero centro, come in Motel, come in Strettamente confidenziale, lavori precedenti, anzi progetti in più tappe di questa compagnia affascinata dalla mobilità dell’esperimento. Le figure sembrano intrusioni, apparizioni, descrizioni di un ordine borghese, meccanico, che si concentra in luoghi rigidi, dominanti; le persone sono elementi di una modularità riproducibile, meccanica, subito slabbrata in echi, sogni, fantasmi di evasioni in una salvezza che passa per lo sprofondamento, la contaminazione, la distruzione.

La realtà vige come monumento al vuoto, per aprire, nell’ossessione del riproducibile, strade verso strati più densi di quello che Lacan chiama reale, un flusso, l’esterno nel quale siamo immersi prima della traduzione (tradimento) simbolica del linguaggio e della proiezione immaginaria. Non c’è storia, narrazione, qui: c’è riproduzione, moltiplicazione del simile, minaccia, ripetizione, attesa, scoloramento, metamorfosi del corpo umano, femminile. Un essere androgino siede in poltrona (sogna, vede, forse questa “città delle donne”?) e in certi momenti avanza senza testa per abbattersi come marionetta svuotata. Varie ragazze ben vestite ritornano, da sole, in piccoli gruppi, con gesti ritmicamente misurati, coreografati, usurati in semplici iterative figure che virano in animali, contorsioni, arcaiche visioni, passando attraverso l’ampolla alchemica di virtuosistiche azioni ginniche.

La stessa danza come disciplina viene messa in discussione, come costruzione tra slancio, ritmo, posa, coreografia. Viene decostruita in un crepuscolo dove può allignare ogni metamorfosi: carne o ectoplasmi generati da un bocca-occhio-poltrona come resti di un essere sacrificale; acrobazie che rivelano, mischiano i corpi in scorpioni o altri inquietanti esseri che avanzano strisciando su molte zampe, antenne, chele, pungiglioni.

Pullula lo spazio e si vuota, rimanendo, per lunghi momenti, insensibile, gelido o infuocato, signore sovrano di quell’affannarsi senza direzione, come dietro i vetrini di un quotidiano svuotamento sentimentale. Attendiamo le prossime tappe, dedicate a Jean Doe e a Baby Doe, l’assenza fatta donna o bambina (o vista da donna o bambina).

John Doe - © Federico Fiori, Francesca Lenzi - Dancer: Rhuena Bracci