04/03/2012 - Chiara Pirri, Alfabeta2
gruppo nanou è una compagnia ravennate, esponente di quell’ultima generazione della scena che occupa uno spazio genericamente e ampiamente performativo, caratterizzato da una contiguità tra visuale, coreografico, teatrale e mediatico. Tra i possibili eredi di quello che è stato definito teatro immagine, da cui si distaccano grazie ad una particolarissima e personalissima estetica, gruppo nanou è presente in molti degli spazi di visibilità delle ultime derive/esperienze del contemporaneo: festival, rassegne, teatri, gallerie…
La compagnia nasce nel 2004 ad opera di Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura, come luogo d’incontro dei diversi ambiti di ricerca: il corpo, il suono e l’immagine, che nel dialogo trovano un linguaggio comune dando vita ad un’opera organica. L’interdipendenza tra i diversi linguaggi della scena si manifesta fin dalla scelta del nome: nanou, fonema che ricorda un nome proprio di individuo, un soggetto la cui presenza è fatta di segni diversi ma imprescindibili l’uno dall’altro. La compagnia si fa portatrice, insieme ad altri esponenti della recente scena teatrale, come Santasangre e Phatosformel, non più di un’estetica della «drammaturgia diffusa» – come nel teatro post-drammatico e dunque nel teatro immagine -, bensì di un’estetica del «corpo-diffuso».
Mentre quel teatro che Hans Thies Lehmann definì post-drammatico vedeva l’ampliarsi del campo d’azione del testo – elemento concettuale, dialogico, narrativo – oltre i confini del testo letterario, dando modo alla drammaturgia di declinarsi anche attraverso il suono (drammaturgia sonora), il corpo (drammaturgia del corpo), la scena (drammaturgia della scena), ecc.; nel caso di gruppo nanou si può invece parlare di corpo/sonoro, corpo/oggetto, corpo/luce, elementi che si situano sullo stesso piano del corpo del performer, il quale diviene segno tra i segni. Di conseguenza la coreografia è assunta come linguaggio comune alle diverse specializzazioni artistiche. Vi è una coreografia dell’immagine, il cui movimento è dato da un peculiare utilizzo della luce, ed una coreografia del suono, che accompagna, suggerisce e talvolta svela il senso stesso del corpo e del soggetto.
Motel [faccende personali] è l’ultimo progetto della compagnia, una trilogia composta di tre opere performative indipendenti (Prima stanza, Seconda stanza e Anticamera), ma che fruite in soluzione di continuità assumono una coerenza aristotelica. Lo spazio che Motel identifica è un luogo isolante, eppure un campo operativo, ciò che rende i personaggi Figure. Nella fattispecie è un luogo d’antan: un freddo e anonimo interno borghese, una stanza d’albergo in stile novecentesco, spazio in cui si scagliano, come immagini di un tableau vivant, la donna, l’uomo dal cappello a cilindro, il cameriere, e la relazione semplice e misteriosa che si instaura tra le Figure e il «luogo».
La qualità degli oggetti/mondi che campeggiano sulla scena indica la volontà di costruire un universo fatto di segni riconoscibili operando attraverso una scelta accurata del dettaglio: quel divano, quel bicchiere, quella stoffa che riprende le tinte dell’ambiente e della luce… La potenzialità descrittiva di tali oggetti, che fanno riferimento ad epoche e trascorsi sociali e artistici riconoscibili, non è testimone di un intento naturalista né tanto meno narrativo. La scena è costruita con precisione e essenzialità, ma nessuno dei particolari è stato scelto per raccontare la propria storia.
Allo stesso modo la coreografia che orchestra il dialogo tra il corpo/luce, il corpo/suono e i corpi dei performer pare seguire un ritmo di metronomo, è guidata dalla medesima cura per il particolare ed essenzialità. In questa ossessiva precisione la visione non perde la sua vivezza, un’immagine chiara e allo stesso tempo sensuale si offre allo sguardo dello spettatore, che assume il ruolo di voyeur. La sensazione di essere in procinto di spiare una figura ingenua caratterizza la qualità della visione in Motel sebbene il punto di vista pare spostarsi: dalla finestra, al fuori campo, al buco della serratura. Costante resta invece la modalità dello sguardo, ripetutamente indotto a fissare i particolari (quegli stessi particolari di cui prima dicevamo «scelti con cura») finché questi non acquistino una qualità straniante e in alcuni casi mostruosa (nel senso etimologico: contro la propria natura).
È la modalità di relazione coreografica tra i corpi in scena (il corpo/performer, il corpo/luce, il corpo/suono, i corpi/oggetti) a svuotare di senso il contesto – quel contesto – in cui si situa riempiendolo di particolari stranianti che sviano l’attenzione verso un altrove. Questo altrove, che ogni elemento d’immagine e suono, ogni gesto e luce concorrono a indicare, è il vero protagonista delle opere di gruppo nanou. La «poetica dell’altrove» è in grado di sottrarre gli oggetti del reale all’oggettività di cui godono, lasciare fuori scena l’azione che funge da movente e osservare ciò che resta (l’indizio) o ciò che si dona come dato di fatto, carico di mistero, con lo scopo di riconoscere nei luoghi della quotidianità e dell’intimità quella piega da cui deflagra il dato conturbante.
Esperta anche lei della capacità straniante del particolare, la fotografa americana Diane Arbus ricorda che «mettere a fuoco il particolare» è l’unico modo per «giungere al generale». L’immagine fotografica opera una imprescindibile scelta del particolare nella messa a fuoco, operazione che pare appartenere alla fotografia per natura tanto quanto all’estetica del gruppo ravennate per scelta. Effettivamente le immagini di Motel possiedono una qualità fotografica: bidimensionalità e apparente lontananza dell’immagine (come vista attraverso un obiettivo); visione frontale e statica; preferenza di primi piani, anche se quasi mai sui volti, quanto piuttosto su particolari: piede, gamba, mano, oggetto.
La bidimensionalità e la lontananza sono ciò che donano allo spettatore la sensazione di essere a contatto con qualcosa che appartiene ad un archivio affettivo, contemporaneamente intimo e universale, qualcosa che come una vecchia foto si situa in una dimensione fuori dal tempo, quella dimensione che potremmo definire: «il ricordo del ricordo», dimensione della fruizione che si costruisce anche attraverso un utilizzo peculiare del suono e della luce. Una partitura sonora che riunisce in una partitura organica: la musica da dancing hall di fine ‘900, la voce sottile di Elizabeth Fraser, applausi, risa, il rumore di una tv rotta, ecc., suoni che si insinuano come brandelli di una memoria condivisa, che creano un riverbero nella percezione. Mentre la luce evidenzia, crea i primi piani, e nell’alternarsi al buio offre e sottrae la visione come in un susseguirsi di diapositive.
Inoltre il meccanismo di vicendevole alternarsi tra buio e luce – una luce piena di «sfarfallii», come nei primi piani cinematografi -, costituisce il dispositivo caratteristico di Motel, quello che potremmo definire macchina del desiderio. Anticamera della visione, l’oscurità crea lo spazio-tempo in cui lo spettatore cova l’attaccamento oculare all’immagine, il desiderio di ricongiungersi nuovamente al godimento visivo, la luce risulta dunque coincidere con il momento di effimero, eppur reale, appagamento ottico.
In tale parallelismo tra gli effetti dell’immagine analogica e quelli dell’immagine restituita dall’opera di gruppo nanou emerge la capacità della visione performativa in questione di restituire effetti tecnologici pur in assenza di mezzi tecnologici. Interessante è infatti notare come i mezzi utilizzati allo scopo siano quelli tradizionali: il suono, gli oggetti, i corpi e la luce, il che ci pone al di fuori della campo McLuhaniano che vuole che nel mezzo sia insito il destino del messaggio.