01-02/2013 - Valentina Valentini, Quaderni del teatro di Roma n.11
Una premessa: alla Tate Modern di Londra, la mostra A Bigger Splash indaga sui rapporti fra performance art e pittura a partire dagli anni cinquanta (da David Hockney, passando per Andy Warhol, a Niki de Saint Phalle). Una rivista storica dedicata alle performing arts, come PAJ (diretta da Bonnie Marranca) da alcuni anni ha esteso il suo campo di intervento alle arti visive per cui ha trasformato l’acronimo da Performing Arts Journal a Journal of Performance and Art. Questi due esempi solo per evidenziare come le arti visive , certamente più strutturate e solide economicamente, rispetto al teatro, manifestino una tendenza a inglobare i territori liminali, di frontiera, come quello della performance, del cinema espositivo, della sound art . C’è anche da sottolineare che la dimensione performativa è diventata – complici le tecnologie digitali e informatiche – dominante sul piano estetico, il che non significa che vada a vantaggio del formato spettacolo e del dispositivo teatro – Significa invece che nelle diverse espressioni artistiche predomina la dimensione del qui e ora, la liveness, che è un tratto peculiare del teatro . Considerando la relazione fra teatro e arti visive, vorremo provare a esaminare queste interferenze fra i due, evitando di considerare ciascuna pratica artistica di per sé e prendendo in considerazione un aldilà dei formati (spettacolo, mostra, film, concerto) e dei dispositivi (il teatro, il cinema).
Torniamo un po’ indietro alle interferenze fra teatro e arti visive nei primi anni settanta del secolo scorso.
La magnificazione della dimensione percettiva, materica, cromatica e luminosa, la rottura della concatenazione drammatica , la composizione dello spazio scenico come spazio plastico-visuale, sono i tratti più rilevanti del teatro immagine, tendenza diffusa in Europa e negli USA. Drammaturgia visuale ha significato portare il teatro fuori dal territorio del racconto letterario e del mimetico e comporre lo spettacolo mediante il procedimento del montaggio. Inoltre, moltiplicando i luoghi e le azioni sceniche in simultaneità, sezionando lo spazio in verticale e orizzontale e incorniciando quelle poche cose che vanno viste, si è destrutturata l’idea di totalità per ridare vitalità e energia alla visione. Negli spettacoli di Robert Wilson, Richard Foreman, Carmelo Bene, Memé Perlini e tanti altri, esemplarmente si ritrovano i tratti di una scena in cui il racconto drammatico si declina come sequenza visuale.
Questo processo è in atto, non si è concluso con il teatro immagine, e assume forme diverse.
Se consideriamo le interferenze fra spazio scenico e arti visuali a partire dagli anni novanta del secolo scorso, ci rendiamo conto che si è arrivati a incidere sulla natura stessa del dispositivo teatrale, mettendo in crisi la forma–spettacolo.
Nell’Inferno di Romeo Castellucci, un autore il cui immaginario è fortemente alimentato dalle arti visive, si dispiega un repertorio di immagini che rimandano all’arte contemporanea: il pianoforte che brucia di matrice Fluxus, Going Forth By Day e Tristan’s Ascension di Bill Viola, Andy Warhol con i suoi Disaster, ….Ma non sono tanto i riferimenti espliciti – a denunciare come le arti visive modellizzino lo spettacolo teatrale, quanto è proprio il formato spettacolo che si è trasformato, è diventa altro da sé, ha assunto – il formato installazione – che oggi è la dimensione in cui precipitano tutte le singolari pratiche artistiche, al di là della specifica origine : nelle arti visive, nel cinema, nel teatro nella danza o nella musica.
Ancor più tale formato è evidente nel successivo spettacolo di Romeo Castellucci, Il velo nero del pastore , collocato in una sala teatrale, ma altrettanto pertinente sarebbe lo spazio di un museo, configurandosi l’opera come una successione di quadri visivi-sonori che condividono una interrogazione sul meccanismo della visione.
Anticamera, spettacolo del gruppo nanou, si ambienta preferibilmente fuori dal palcoscenico, in una galleria, a sottolineare coerentemente il formato installativo. Una figura umana di cui non vediamo il volto, avanza in slow motion fino ad arrivare a un cubo di legno con una apertura sul davanti, che fa pensare a un televisore prima degli schermi piatti. Il dispositivo drammaturgico è fotografico, compone delle inquadrature, grazie all’uso della luce che mette a fuoco dettagli del corpo, scompone oggetto e figura umana, crea dissolvenze. : una serie di scatti fotografici che, come in una fotocamera digitale, costruiscono una sequenza.
anticamera [Motel] - © laura arlotti - Dancer: Rhuena Bracci
Il formato installazione che assume oggi lo spettacolo teatrale, risale a una pratica artistica affermatesi a partire dagli anni sessanta, come espressione della tendenza dell’arte visiva ad oltrepassare il proprio specifico spaziale per assumere dimensioni temporali e “teatralizzarsi “. Questi spettacoli sono espressione, viceversa, della tendenza del teatro a “visualizzarsi”?
Consideriamo le due opere di William Kentridge, sul tema del tempo: lo spettacolo, teatrale Refuse the Hour (Teatro Argentina- Roma) e l’installazione The Refusal of Time (Maxxi, Roma), due opere che rispettano in due contesti diversi, la diversità dei formati.
Nel primo visualità, musica, vocalità, danza, testo verbale scritto e proferito da William Kentridge, le macchine celibi, Schlemmer, il costruttivismo, Duchamp,
le proiezioni sui fondali , l’orchestra dal vivo , vanno a comporre uno spazio-tempo dello spettacolo stratificato in tre campi di visione-ascolto: lungo ( i sipari e le proiezioni), medio ( le vocalist e i cantanti), primo piano ( la danzatrice e il lettore-autore), sovra determinati dall’esposizione verbale dell’autore i (memorie autobiografiche, storia, geografia, scienza, fotografia…). Anche nell’ installazione (già a Kassel) , trovano dimora le forme di espressione artistica di William Kentridge ( il disegno, la pittura, la scultura, il teatro, il cinema d’animazione, le ombre, l’immaginario scientifico, la storia politica ), in uno spazio però, avvolgente, che circonda lo spettatore e lo obbliga a essere mobile e vigile con lo sguardo - a differenza dello schermo monodirezionale del cinema e della frontalità del teatro L’installazione crea un suo spazio, che fa pensare alle piazze dei paesi, ai luoghi dove le persone sono solite ritrovarsi e si soffermano a gruppi, sparpagliati, posizionati in diverse direzioni. Qua il tema del tempo viene restituito non tanto da discorsi enunciati e non solo dai metronomi che scandiscono a diverse velocità il tempo, dagli orologi, dai pendoli,etc, quanto dalla spazializzazione del tempo e dalla temporalizzazione dello spazio. La circolarità produce una mancanza di direzione prefissata di scorrimento delle immagini, e una imprevedibilità perché le immagini ca volte sono proiettate simultaneamente sulle tre pareti , altre volte su ogni parete sono proiettate immagini differenti.
Il formato installazione è più attraente rispetto al formato spettacolo. e questo dato potrebbe essere la verifica della tesi enunciata:viviamo in una condizione estetica caratterizzata da quello che Raymond Bellour ( 2012) chiama la querelle des dispositfs. , ovvero il trasbordare, non solo del linguaggio, ma dell’intero apparato disciplinare, fuori dai contesti in cui e con cui fino a oggi sono stati identificati. E questo produce per lo spettatore un godimento.
Nel cinema, i cui apparati critici sono più pronti a recepire e discutere i fenomeni in atto, si è chiamato il passaggio delle immagini in movimento dallo schermo e dal buio della sala cinematografica, alla luce o penombra della galleria e del museo, “ altro cinema, cinema espositivo, terzo cinema, postcinmema”.
Per quanto riguarda il teatro, la distanza fra pratica artistica e riflessione teorica- critica è da colmare.