Come imparare a guardare le stelle
Per opporsi al luogo comune che definisce la danza contemporanea difficile da leggere, e quindi per affrontare le difficoltà produttive e di programmazione connaturate a qualsiasi progetto di ricerca artistica aperto al nuovo, Gruppo Nanou ha avviato nel 2017 il progetto Alphabet: non uno spettacolo, piuttosto un contenitore al cui interno coesistono svariate ma sistematiche forme di sviluppo.
“Questo esperimento tenta di afferrare un’evidenza nella composizione coreografica e nella ragione per cui i corpi, anche sonori e luminosi, si muovono nello spazio e generano attività. L’evidenza non ha niente a che fare con la didascalia: l’evidenza, per com’è qui intesa, è la capacità di togliere interrogativi cercando quella ragione che non pone domande, seppur non esattamente decifrabile”. Così enunciava la voce di Marco Valerio Amico nella Resa di Alphabet a Teatri di Vetro[1], subito prima che i corpi di Carolina Amoretti, Sissj Bassani, Rhuena Bracci e Marco Maretti iniziassero a muoversi sulla mappa tracciata con il nastro adesivo in scena. E proseguiva: “Un esempio che spesso riporto è l’incanto che pone l’osservazione delle stelle. Non sono un fisico, non posso decifrare la ragione esatta del perché il cielo sia così composto e così in movimento, eppure lo leggo per la sua meraviglia, per la sua esattezza. Così desidero leggere la coreografia, che seppur misteriosa si fa evidente per le sue ragioni che risiedono in un dispositivo severo, capace di generare spazi”.
La Resa che dà nome a quell’apertura del progetto è intesa come “verifica della tesi. L’applicazione di regole compositive coreografiche per raggiungere la Resa determinata dalla combinazione scelta”.[2] Un approccio di tipo scientifico, in cui si eliminano le variabili in campo per arrivare a verificare oggettivamente la correttezza della composizione coreografica, sembra essere alla base di Alphabet: una sfida pluriennale che mette a sistema non gli elementi dell’audience development, dell’audience engagement o della partecipazione, ma piuttosto l’alfabeto e il lessico del proprio linguaggio coreografico, necessari per definire la chiarezza dei propri enunciati e per consentire, quindi, un dialogo trasparente con il pubblico. Guardando al lavoro del gruppo[3], un discorso analogo ad Alphabet sembra essere stato sempre presente nella metodologia compositiva della compagnia, anche se in modo non così analitico: Alphabet cerca di creare un sistema, per poi ritornare all’esplorazione di un tema[4]. Si definisce quindi come sperimentazione di nuove modalità di accesso alla visione che parte, invece che dal pubblico, da un’analisi del proprio lavoro precedente.
Alphabet – © Margherita Masè – Dancer: Carolina Amoretti
Gli inizi
Nanou nasce ufficialmente nel 2004 dopo gli incontri tra Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura. Il primo ha studiato alla scuola Paolo Grassi di Milano, Rhuena è ginnasta e danzatrice, Roberto fonico e musicista, tutti sono attivi nella scena indipendente romagnola. La partecipazione al concorso GD’a – Giovani Danz’autori dell’Emilia Romagna (una delle occasioni offerte dall’Associazione Cantieri, con l’obiettivo di sviluppare una cultura originale sulla danza d’autore e di ricerca contemporanea[5]), è il primo progetto condiviso. La prima trappa prevedeva la presentazione di un’idea di progetto in versione urbana, dentro a una vetrina: così il gruppo propone, nel 2004, un primo frammento di Namoro, vincitore dell’edizione 2004-2005 del concorso.
Nei quindici anni di vita della compagnia[6], si sono tracciate delle linee di lavoro che partono da indicazioni di ricerca molto precise, in una logica di stratificazione delle informazioni che consente di individuare i diversi elementi (come movimento, musica, luce, colore) nella loro indipendenza: proprio perché vengono messi in relazione acquisiscono un valore emotivo diverso[7].
Il rapporto con la parola, che si sovrappone all’azione scenica non come didascalia ma come risonanza, è presente già nel primo lavoro e resta a indicare un contrappunto capace di ampliare (e chiarire) il significato di quello che si vede in scena. Comune agli spettacoli della compagnia è una frammentarietà che si allontana dalla narrazione per esplorare un territorio astratto: a partire da annotazioni, musiche, fotografie, si creano connessioni che determinano un progetto di ricerca che si articola poi nel lavoro in sala. Non c’è la volontà di fare riconoscere gli spunti, che restano come stimoli e non citazioni. Come scrive Lorenzo Donati, “Nati e cresciuti dentro una società dello spettacolo aggiornata al trentennio berlusconiano, i Nanou sembrano diffidare della linearità del racconto, non si fidano dell’intrattenimento e chiedono a chi guarda di scegliere, di farsi carico dei ‘ganci’ proposti e di portare avanti in autonomia la narrazione come di fronte alla molteplicità di elusioni di un quadro di Bacon.”[8]
Così come i riferimenti si confondono nel lavoro, le informazioni di movimento non partono mai dall’intenzione di creare una figura intesa come elemento narrativo o simbolico da decifrare: sono indicazioni “sportive” che innescano un sistema. Sono azioni proposte per essere applicate dai danzatori con il proprio corpo, e di conseguenza aperte: la loro enunciazione offre strumenti per poterle leggere o osservare.
Come in ogni progetto creativo volto alla ricerca di nuovi paesaggi artistici, la chiarezza si fa sempre evidente alla fine del processo: quest’ultimo acquisisce quindi una grande importanza negli spettacoli del gruppo. In un simile lavoro di esplorazione del contemporaneo, si sono fatte presto presenti per Nanou delle domande legate al proprio fare, guidate da una costante esigenza di confronto con l’interlocutore (spettatore, artista, operatore o professionista di altre discipline).
Convivialità
Sembra essere quindi connaturata all’identità della compagnia l’apertura alla condivisione dei processi: prima ancora che l’esigenza di interrogarsi sul proprio lavoro artistico attraverso il confronto portasse alla nascita di Alphabet, altri eventi hanno risposto a questa necessità. Nel 2008, per volontà di Nanou, nasce Aksè, una residenza creativa in cui diverse compagnie condividono uno stesso spazio per le prove, con un’apertura al confronto ma senza il bisogno di produrre alcun risultato performativo. Il progetto si è sviluppato come programma quadriennale di incontri tra artisti accompagnati e sostenuti da L’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino e Centrale Fies di Dro, alla ricerca di un dialogo fra linguaggi e metodologie che superassero la necessità di riconoscersi in una resa scenica. Come afferma Mario Petruziello nell’introduzione alla pubblicazione che racconta il progetto, “credo che il pensiero su cui si fonda Aksè abbia sì a che fare con il teatro, ma in una maniera problematica. Se si vuole considerare tale termine secondo il suo senso letterale, occorre osservare che il teatro si struttura su una relazione, quella tra performer e pubblico, che Aksè non prevede, visto che nel suo statuto non scritto esclude in maniera costitutiva l’apertura allo spettatore esterno per inverarsi, invece, in una profonda relazione fra compagnie.”[9]
Uno degli elementi chiave del progetto Aksè è il tempo: il lusso di prendersi il tempo non concesso dai sistemi produttivi, e di concedersi piuttosto dei momenti improduttivi legati all’esplorazione dell’errore invece che al raggiungimento di un risultato. In questo contesto si sono incontrati i percorsi di compagnie come Santasangre, Muta Imago, CollettivO CineticO, Città di Ebla, Teatro Sotterraneo, e tanti altri.
Da questo bisogno di confronto si riconosce un’attenzione all’interlocutore che diventa tentativo di dialogo profondo con l’altro, e quindi con lo spettatore: “l’approccio al dialogo, al confronto, prima di arrivare all’oggetto “spettacolo”, che è sintesi di un processo, deve avere una domanda di partenza: con chi sto parlando?”[10]
Nel porsi questa domanda due elementi sono stati al centro del fare artistico della compagnia: l’esplorazione di una modalità di fruizione che si allontanasse da quelle puramente teatrali, e che ancora una volta favorisse il dialogo in uno spazio di relazione abitato, e non osservato frontalmente; e la ricerca della chiarezza, dell’individuazione di elementi in una griglia anche molto rigida di regole, a partire dalla quale concedersi l’errore.
Distrazione: spazi e tempi non teatrali
Una forma di articolazione della prima tendenza è il progetto Strettamente confidenziale: un dispositivo museale, un progetto site specific aperto, nato nel 2013. Lontana dall’idea di intrattenimento, l’opera consente allo spettatore la libertà di muoversi e prendere delle pause esattamente come avviene davanti a un quadro.
“L’idea del progetto nasce dal desiderio di accompagnare lo spettatore all’interno dell’universo del percorso artistico di gruppo nanou, costituito da effetti emotivi e referenze culturali, all’interno del lavoro che precede la divulgazione dell’opera sotto forma di prodotto completo. […] E’ il prototipo di un’opera museale coreografica: l’ospite / spettatore è invitato a scegliere il suo tempo di fruizione muovendosi liberamente, scegliendo il suo percorso con la possibilità di tornare sui suoi passi per continuare a smarrirsi nel suo desiderio di visitatore.”[11]
Dentro al concetto di Strettamente confidenziale si ritrovano un nuovo modo di concepire il tempo e lo spazio e, in altri termini, la fruizione dello spettatore. Un progetto che è diventato un dispositivo da mettere in campo: andando al di là delle convenzioni teatrali di uno spazio e un tempo definiti, senza accompagnare lo spettatore, si entra in un habitat aperto.
“Per questo progetto ho bisogno di lasciare lo spazio teatrale per permettere di camminare tra le opere, come in uno spazio museale. È proprio al museo che rivolgo lo sguardo perché le opere si lasciano guardare, permettono una relazione in cui l’abbandono, il muoversi oltre, è contemplato, tanto quanto il chiacchiericcio che si crea tra chi osserva insieme. Ho la necessità di lasciare lo spazio della platea che trattiene le persone sedute per accedere all’opportunità dell’incontro con l’altro che osserva con me in quell’istante senza il posto assegnato ma per condivisione di attrattive. Parlo dell’opportunità di costruire una comunità estemporanea in cui ogni individuo sia libero di scegliere. Offro l’opportunità del disordine perché ognuno possa trovare il suo posto esatto e mobile. Ho la necessità di lasciare che l’inizio e la fine siano dettati da una scelta personale. Rimane solo l’orario di apertura e l’orario di chiusura del luogo, il tempo di accesso. Il corpo come il dipinto abbandona il ritmo, abbandona la necessità di riflettersi in chi guarda.”[12]
Un simile concetto è quello che guida la fruizione di spazio nelle note che accompagnano la nascita del progetto Alphabet: “[…] Le zone libere da forme geometriche determineranno la via, il percorso possibile per lo spettatore. L’occhio impiegherà del tempo a scorgere i danzatori e la loro attività poiché si perderà prima nella vastità. Lo spettatore è libero di muoversi nello spazio così come è libero di entrare ed uscire. Il tempo di fruizione è lasciato allo spettatore così come il punto di visione. […] All’ingresso dello spazio è collocato un bar.”[13]
Fare chiarezza
Nel lavoro di Gruppo Nanou si riconosce il bisogno di una ricerca sulla prassi guidata dalla chiarezza, dal metodo, dalle regole: un’ossessione capace di trovare la chiave di accesso a uno spettacolo. Marco Valerio Amico si dichiara contrario ai manifesti ma ammette “la necessità di essere ovvio” con un Manifesto per una danza possibile articolato in tre elementi (corpo, spazio, tempo) e, per ognuno di essi, numerosi punti il cui ordine di lettura può essere modificato in qualsiasi momento.[14]
Accanto a una pratica che, partendo dai riferimenti dell’arte minimalista, sperimenta nuove relazioni determinate dalla chiarezza del dispositivo e della grammatica di movimento, la tendenza a trovare delle regole inequivocabili trova le sue estreme conseguenze nel progetto Alphabet.
Una domanda fondamentale sullo spettatore lascia spazio a una messa in discussione del proprio lavoro: con chi sto parlando? il mio interlocutore ha gli strumenti per capire il mio linguaggio?
Invece che partire dal dato drammatico (come avviene nella creazione di uno spettacolo), si elimina ogni elemento narrativo per lavorare sul movimento puro, sulla ripetizione di esercizi anche semplici e frustranti, con regole molto rigide (vengono alla mente i movimenti elementari di Calico Mingling di Lucinda Childs del 1973, laddove in una ripresa dall’alto i danzatori sembrano le pedine su una scacchiera, che rendono movimenti semplici una pratica coreografata di attraversamento dello spazio).
Si riconosce così un costante contrappunto tra la necessità di affermare una partitura inequivocabile, quasi scientifica, e una ricerca dell’imprevedibile, che punta continuamente in avanti e che riconosce le variabili proprie della creazione, della visione e dell’interpretazione. Esemplificativo di questa relazione è l’uso della mappa, utilizzata come modulo e griglia, come elemento per orientarsi, nell’ambito del quale si muovono tanto l’interprete, quanto lo sguardo dello spettatore.[15]
In questo modo si attiva un’analisi quasi scientifica nell’osservazione del meccanismo: il processo compositivo diviene così l’elaborazione di un codice di dialogo con il pubblico.
- Lo spettacolo è una relazione con lo spettatore; 2. Riconfigurare il concetto di spettatore; 3. Riconfigurare lo spettatore; 4. Rileggere attentamente i due punti precedenti. Non sono ripetizioni. Non contengono errori; 5. Lo spettatore è invitato; 6. Accettare l’invito è: predisporsi ad una attività esplorativa, quindi di meraviglia; 7. Accettare l’invito è: accettare lo spaesamento inteso come modifica, slittamento in avanti delle consuetudini, per accogliere un mondo diverso, un punto di vista non contemplato, un’organizzazione politica; 8. L’invito è: accettare il disagio presupposto nello spaesamento come nuovo agio perché non ancora conosciuto; 9. Se il disagio persiste, consultare il medico; 10. L’azione e lo sguardo assumono la presunzione di coincidere così da essere esattamente in sincrono con la meraviglia dell’accadimento.[16]
Alphabet - © gruppo nanou
[1] Resa Alphabet, Teatro India, Roma, 17 dicembre 2018
[2] Dal programma di sala di Teatri di vetro, 2018
[3] cfr. Iperscene. Città di Ebla, Cosmesi, gruppo nanou, Ooffouro, Santasangre, a cura di Mauro Petruzziello, ed. Editoria & Spettacolo 2007
[4] L’ultimo lavoro della compagnia, We want miles in a silent way (2019) è il primo esperimento successivo a questa precisazione del metodo: come tornare a lavorare su un immaginario (in questo caso Miles Davis) con la stessa lucidità e chiarezza? Come passare dal giudizio bello/brutto al funziona/non funziona? (cfr. Intervista a Marco Valerio Amico, infra)
[5] cfr Cantieri extralarge. Quindici anni di danza d'autore in Italia, Editoria & Spettacolo
[6] Ricordiamo qui i principali lavori del gruppo, dopo Namoro (2005): Progetto Motel (2008-2010); Sport (2011); progetto Dancing Hall (2012-2013); Progetto J.D. (2014-2017).
[7] cfr Intervista, infra
[8] Lorenzo Donati, Al lato della rappresentazione. I paesaggi performativi di gruppo nanou, in “Arabeschi”, n. 6, Luglio-Dicembre 2015, pp. 16-28 http://www.arabeschi.it/al-lato-della-rappresentazione-i-paesaggi-performativi-di-gruppo-nanou-/ [15 luglio 2019]
[9] Mauro Petruzziello (a cura di), Aksè. Vocabolario per una comunità teatrale, L'Arboreto Edizioni, Mondaino 2012.
[10] Marco Valerio Amico, Che confusione, sarà perché ti amo, in Stratagemmi - Prospettive Teatrali, n. 37 / Guardando I Processi Creativi, 2018
[11] Dal testo di presentazione dello spettacolo
[12] Marco Valerio Amico, Una nuova scommessa strettamente confidenziale, in Roberta Nicolai, Ludovica Marinucci (a cura di), PITTI - Piccoli testi (non solo) teorici, TriangoloScalenoTeatro, ebook 2014.
[13] Marco Valerio Amico, Alphabet: lo spazio che desidero, in “Edel: per una poetica degli spazi”, anno 5, numero 7, ottobre 2017
[14] Marco Valerio Amico, Manifesto per una danza possibile, Artribune, 4 maggio 2017 https://www.artribune.com/arti-performative/teatro-danza/2017/05/marco-valerio-amico-gruppo-nanou/ [15 luglio 2019]: “Con leggerezza, non credo nei manifesti. I manifesti fissano qualcosa che dovrebbe continuare a muoversi in avanti. Eppure sento la necessità di fissare per lasciare indietro, per rendere evidente ciò che ormai è assunto (o almeno dovrebbe esserlo). Spero siano capaci di generare un imprevisto dialogo perché, per quanto sia leggero questo esercizio, ci sono cose che devono essere affermate con chiarezza”.
[15] cfr. Vittorio Fiore, Alphabet di Gruppo Nanou. Verso l’evidenza di un processo creativo, in Arabeschi n. 13, https://www.grupponanou.it/alphabet-di-gruppo-nanou-verso-levidenza-di-un-processo-creativo/ [15 luglio 2019]: “La necessità di uno studio che ripieghi su se stesso, di uno spazio scenico ridotto ad una ‘mappa’ che, restando visibile anche a produzione avvenuta renda leggibile allo spettatore il riferimento che ha condizionato l’elaborazione coreografica, ci riporta alle condizioni artistiche in cui il processo si sostituisce al risultato: mostrare l’elaborazione creativa è più importante della performance”.
[16] Marco Valerio Amico, La coreografia è politica. Alphabet: manifesto per una danza possibile, in Clemente Tafuri, David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, Vol. 9, Genova, Akropolislibri, 2018, pp. 85-87.