03/12/2014 - Massimo Marino, Corriere della Sera, Bologna
Il loro è un teatro di pure presenze, di corpi tesi oltre la danza verso confini incerti, di ambienti, luci, oggetti, suoni, a formare labirinti intricati o quadri apparentemente tersi, segni essenziali per suonare allarmi sul nostro presente confuso, disperso, in cerca di visioni e smarrito nelle seduzioni delle immagini.
Non ci sono storie nei lavori del gruppo Nanou, chiamati, piuttosto che spettacoli, performance o progetti, distesi in più campiture. L’ensemble ravennate, nato dieci anni fa, rifiuta il racconto, il dramma, per sondare piuttosto ambienti, paesaggi, presagi, del nostro presente. Arriva a Casalecchio, domani alle 21 al teatro Pubblico, con la prima parte di un nuovo ciclo, John Doe, firmata da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci (i fondatori della compagnia), con la presenza scenica di Sissj Bassani, Alessia Berardi, Rhuena Bracci, Anna Marocco, il suono di Roberto Rettura, le luci e le scene di giovanni Marocco. «John Doe – ci spiega Amico – è l’appellativo con cui nel gergo giudiziario statunitense si indica un cadavere maschile da identificare o comunque l’assenza di identità. Equivale al nostro Giovanni Rossi, o a “tizio”. Nei prossimi anni il progetto, intitolato J.D. proseguirà con Jean Doe e Baby Doe. Si tratta, evidentemente, di un discorso a togliere identità alla scena, al corpo, per affermare un’immagine simile a quella fotografica, dove non è dato sapere l’azione che precede e quella che segue, eppure, l’incognito, l’assoluto silenzio pre e post, ci consente di entrare più intensamente, nel fascino della figurazione che abbiamo davanti». E’ qualcosa di simile al «punctum» di Roland Barthes, quel qualcosa dell’immagine che ci colpisce, a prescindere dalla storia dalla quale è ritagliata.
«E’ un lavoro sugli echi, sulle assonanze. Isolando la figura, la situazione, annullando la narrazione, creiamo scene di avvicendamento onirico». Più ancora che nei lavori precedenti, si gioca a isolare i corpi nel tempo e nello spazio. Eppure già in Motel, Sport, Strettamente confidenziale la vicenda traspariva più per allusioni, per silenzi, per suoni evocativi, per immagini o addirittura icone che per sviluppi discorsivi. Continua la tendenza a creare ambienti attraverso luci e scenografie, in questo caso separando con cesure ancora più nette ogni possibile collegamento. «Cerchiamo di afferrare la pittoricità dell’azione. Ritmicamente sono quadri in movimento che si incalzano in continuazione in tre ambienti, davanti a un fondale trasparente che fantastica la figura, in un cerchio delimitato da una luce, in uno spazio nero privo di fondale che inquadra solo il corpo. Ci possono essere azioni contemporanee, ma senza legame narrativo». Le idee di Gilles Deleuze stanno alla base di questo lavoro, ma anche gli album di fotografi degli anni Cinquanta come Robert Frank o Elliott Erwitt. «Franck ha narrato l’America “coast to coast” con una successione di scatti di varie figure e situazioni. Non è una storia con personaggi, ma è il racconto di un paese». Un altro riferimento sono le novelle di Raymon Carver: «Lui scrive drammi senza antefatti e senza conclusione. Mostra corpi sicuramente carichi di storie di cui non possiamo conoscere lo svolgimento». In scena si succedono figure femminili o androgine.
E rimane, dai precedenti lavori d’ambiente, un solo elemento, una poltrona. «Indica un habitat borghese in un luogo sempre più astratto, dove l’unica concretezza rimane quella dei corpi che lo abitano». La ricerca, con le prossime tappe, è quella di arrivare sempre di più a un paesaggio da osservare con la distanza tipica degli sguardi dei nostri giorni, come in uno schermo o come il movimento di una stazione visto dalla lontananza di una panchina. In conclusione chiediamo al regista (coreografo, autore) di definire la sua compagnia: «Nanou è il lavoro di vari coautori che cercano di usare i diversi linguaggi scenici per intendere la coreografia come un linguaggio cinematografico dal vivo. Il nostro è un corpo-luce, un corpo-suono, un corpo-spazio».