La trilogia Motel, faccende personali (2008-2011) rappresenta il punto di non ritorno, la nomenclatura e il fulcro concettuale dell’intera produzione performativa di gruppo nanou. Articolato su tre camere (Prima Stanza, Seconda Stanza e Anticamera), che sono al contempo finestre in sé conchiuse ed episodi di una serie, il progetto è stato recentemente celebrato attraverso l’ostensione di alcuni suoi elementi in Strettamente Confidenziale, un’originale operazione di musealizzazione articolata anch’essa in stanze che fungono da contenitori dell’azione, sorta di time boxes che, aperte a distanza di anni, espongono frammenti di memorie deformate dal tempo e dal ricordo.

Topos della cinematografia da Alfred Hitchcock in poi, la camera del motel è il non-luogo per eccellenza, il paradigma di quell’essenza tutta americana dell’abitare transitando. Gli oggetti in essa contenuti, solo apparentemente anonimi, rappresentano in realtà il «paesaggio reificato» e l’«oggettivizzazione delle personalità degli abitanti che la occupano».[1] L’utilizzo della stanza di motel come dispositivo scenico, che diviene una sorta di assoluto per i nanou, trova un noto precedente sulle scene italiane in Twin Rooms (2002) di Motus. Lo spettacolo, mediante un serrato montaggio di frammenti video unito a costanti riferimenti alla letteratura postmoderna americana inscenava il potenziale narrativo connaturato all’immaginario cinematografico del luogo.[2]

Fin dal primo episodio di Motel, la critica teatrale italiana ha guardato anche agli ambienti scenici di gruppo nanou evidenziandone il rapporto con l’immaginario cinematografico.

Soprattutto nella Prima Stanza, infatti, i riferimenti al cinema, in special modo al periodo del muto, sono evidenti: la voluta bicromia dell’ambiente, il prompter d’epoca, la sonorizzazione posticcia e disturbata a sua volta amplificata dalla partitura luminosa che imita i tremori della pellicola usurata con tanto di sdoppiamento finale del fotogramma, per non parlare del tavolo che sembra quasi contenere una cabina di proiezione al contrario, la cui luce risucchia a sé da prima i personaggi, poi il tappeto e infine le sedie.

Se è vero che i nanou rievocano palesemente in scena atmosfere cinematografiche, basti pensare ai titoli scelti per le stanze di Strettamente Confidenziale – Camera 208, Overlook Hotel e La finestra sul cortile — si tratta di riferimenti che rappresentano solo una parte dell’orizzonte culturale del gruppo. Mentre Twin Rooms di Motus era costruito utilizzando un linguaggio cinematografico tipicamente pulp, se non addirittura pornografico nell’uso dei close-up, il legame con il cinema noir e in particolare con i film di David Lynch che viene spesso imputato al lavoro dei nanou è sicuramente più labile e ascrivibile a una sorta di convergenza estetica data da fonti comuni, soprattutto fotografiche.

L’intera trilogia di Motel è letteralmente costellata di rimandi ai grandi maestri della fotografia, ma non si tratta di mere citazioni dirette: l’immagine scenica non viene ricalcata su quella fotografica, si cerca piuttosto di trasportare sulla scena il meccanismo linguistico sotteso a quella stessa precisa immagine. Per esempio, quando nella Seconda Stanza il corpo di Ruhena Bracci si contorce meccanicamente sul divano come una puppe di Belmer, se ne possono scorgere i movimenti solo da uno specchio; questa scena non solo evoca la celebre fotografia di Brassaï Prostituée dans un hôtel de la rue Quincampoix (1932), ma utilizza un espediente registico – il riflesso nello specchio che confonde il significato dell’intera scena – tipico del maestro parigino; su quel divano infatti, non si sa cosa sta per avvenire (o è già avvenuto), se un incontro sessuale o un omicidio, oppure forse entrambi. E ancora, la misteriosa figura dell’uomo con il cilindro che appare più volte nelle stanze di Motel ricorda a tal punto uno dei tanti gentiluomini fotografati di spalle da Robert Frank che nell’episodio di Anticamera pare congelarsi nel noto scatto londinese Chauffeur and Automobiles (1951), quando all’improvviso, toltosi il cappello, l’uomo si rivela senza testa. La negazione allo sguardo, del volto e dell’identità – temi centrali nella recente produzione John Doe (2014) – porta anche alla ripresa di motivi iconografici tipici delle foto di Weegee dove i criminali si coprono il viso, spesso con il cappello come in Two offenders in the Paddy Wagon (1942), e rimandano a una precisa estetica del criminale che vede l’azzimato gentiluomo d’affari confondersi o sovrapporsi al gangster.

Un’influenza spesso attribuita ai nanou è la particolare atmosfera emanata dai dipinti di Edward Hopper, ma anche in questo caso si tratta di un riferimento ‘alla seconda’ per la compagnia, che arriva al pittore attraverso la fotografia di Gregory Crewdson, indicato più volte dagli stessi membri del gruppo come uno dei riferimenti visivi principali. Magistrale illustratore della vita nei sobborghi americani (Dream Houses, 2008), Crewdson è l’esponente più noto di quella che è stata recentemente definita fotografia «hopperiana»;[3] le sue fotografie sono contraddistinte da un’allure noir e da un’artificiosa teatralizzazione, ottenuta grazie a minuziosi set ed estenuanti ore di prove, che congelano la scena in un fotogramma onirico. Anche qui, l’influenza di Credwson sui nanou non si limita a un’evidenza estetica; da lui mutuano un’idea della scena come frammento antinarrativo il cui «beginning middle and end lie elsewhere, outside the frame»[4]

La scrittura dei nanou è tutta concentrata sulla costruzione di immagini, manca completamente della volontà di raccontarne la storia svolgendo lentamente la matassa del mistero, che invece viene alimentato fino alle estreme conseguenze. Vi è, infatti, una costante ricerca di quello che Barthes definisce come il punctum, cioè quella «specie di sottile fuori-campo, come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa stessa dà a vedere»;[5] questo concetto appare fondante per la loro costruzione scenica, come ha spiegato in un’intervista Marco Valerio Amico:
se all’interno di uno spazio, costruito con oggetti reali prelevati dalla quotidianità, inseriamo un corpo, creiamo immediatamente un potenziale racconto. Allo stesso modo, affiancando un uomo e una donna diamo vita a potenziali relazioni. In Motel – Prima Stanza lasciamo questa potenzialità narrativa all’esterno della scena teatrale. Presentiamo al pubblico le macerie di un racconto che si susseguono e incatenano ma non costruiscono una trama. Così, i personaggi si rivolgono sempre a qualcosa che accade altrove, al di là dello spazio scenico.

La Seconda Stanza, invece, ruota intorno ad un avvenimento implicito che non viene mai svelato e che il pubblico può percepire solo attraverso la forte tensione che caratterizza lo spettacolo. La stessa idea di omicidio si traduce in una tensione relazionale, tra personaggi e oggetti, che sfoga in violenza, travalica il racconto e ribalta tutte le prospettive. C’è un uomo che ammazza una donna o viceversa? […] Cerchiamo di creare una sorta di ‘finestra sul cortile’. L’idea scenica, e di conseguenza l’idea di scrittura performativa del corpo, è di aprire la porta immaginaria di una stanza di motel allo sguardo dello spettatore, ma sempre nel momento sbagliato.[6]

Lo spettatore, proprio come James Stewart ne La finestra sul cortile, è costretto in una posizione voyeuristica, rapito dalla «tensione relazionale» tra i personaggi, che è di fatto una tensione violenta, erotica. Del resto Barthes argomenta la sua teoria partendo da un netto distinguo tra l’immagine pornografica dove «non vi è punctum» e la foto erotica che «non fa del sesso un oggetto centrale e può benissimo non farlo vedere; essa trascina lo spettatore fuori della sua cornice, ed è appunto per questo che io animo la foto e che essa a sua volta mi anima».[7]

Marco Valerio Amico e Ruhena Bracci, una coppia anche fuori dalla scena, all’interno del gruppo rappresentano rispettivamente la regia dei punctum e l’oggetto dello sguardo, il corpo su cui questi punctum ‘cadono’: i capelli che sfiorano le spalle, la gonna rossa, le gambe che penzolano dondolando da una poltrona o il tacco delle scarpe che si intravede sotto al divano. Lo spettatore assume in qualche modo quello sguardo sul corpo di lei, sugli abiti che lo rivestono, sul suo rapporto con gli oggetti e la mobilia.

In Anticamera, addirittura, le pareti della stanza si stringono fino a diventare una scatola dove gli arredi sono miniature da casa di bambola, rimpiccioliti per non distrarre dalla partitura dei punctum sul corpo ‘gigantesco’ della performer.

Oltre al punctum il gruppo sembra trarre altri concetti da La camera chiara. Ad esempio, il modello barthesiano secondo cui la foto sarebbe «come un teatro primitivo, come un tableau vivant: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti»,[8] è reso speculare dai nanou che trasformano la scena in fotografia, come a dire che se la fotografia ha un’origine teatrale, allora il teatro può avere un fine fotografico.

Le scene si susseguono davanti ai nostri occhi come una sequenza di scatti, di fotogrammi, dove nell’alternanza tra luce e buio i personaggi appaiono all’improvviso senza motivo, come spettri che tornano a visitarci in sogno. In proposito è interessante osservare come nella sua nota sulla fotografia Barthes definisca lo spectrum come «colui o ciò che è fotografato, che è il bersaglio, il referente, sorta di piccolo simulacro, di eidôlon», ma al contempo sottolinei come la parola mantenga «un rapporto con lo ‘spettacolo’ aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto».[9] Più avanti nel testo recupera questo concetto:

se la fotografia diventa in tal caso orribile, è perché certifica, se così si può dire, che il cadavere è vivo in quanto cadavere: è l’immagine viva di una cosa morta. Infatti, l’immobilità della foto è come il risultato di una maliziosa confusione tra due concetti: il Reale e il Vivente: attestando che l’oggetto è stato reale, essa induce impercettibilmente che sia stato vivo, a causa di quell’illusione che ci fa attribuire al Reale un valore assolutamente superiore, come esterno: ma spostando questo reale verso il passato (è stato) essa ci suggerisce che è già morto.[10]
Sulla scena i nanou esasperano questa lezione, confondendo continuamente i piani tra «Reale» e «Vivente», laddove gli ‘scatti scenici’ ci vengono proposti in modo randomico, come immagini contraddittorie di una sequenza fotografica di cui si sia persa la numerazione originale.

Ad esempio nella Seconda Stanza quando il cameriere entra ripetutamente in scena per raccogliere o sistemare gli oggetti spostati dagli ospiti (che sembrano non vederlo), azzera ripetutamente la scena del presunto crimine.

Questo gesto, reiterato, fa in modo che non possa essere determinato il momento esatto in cui è accaduto l’omicidio. Non è possibile determinare il tempo in cui i due protagonisti si sono incontrati per compiere le loro azioni; la quotidianità affrontata dall’uomo e la donna è sempre uguale a se stessa, l’omicidio può essere compiuto continuamente.[11]
Nella dialettica tra «Reale» e «Vivente» imbastita da nanou ci si trova schiacciati in quella dimensione del ‘quasi’ barthesiano, «davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire, proteso, verso l’essenza, discendere senza averla contemplata, e ricominciare da capo».[12] Lo spettatore si trova così diviso tra la fascinazione per il mistero e la sofferenza data dall’incompiutezza della narrazione, ancorché le immagini frammentate sembrino provenire da una sequenza temporale che, come accade al protagonista del film di Nolan Memento, vorremmo riuscire a ricostruire ordinando cronologicamente gli indizi.

Con il recente progetto Strettamente confidenziale la scrittura scenica dei nanou si avvicina ancora di più al linguaggio fotografico: le immagini più suggestive della produzione del gruppo vengono raccolte in una sorta di album ‘vivente’; ogni episodio è un intervento senza replica che assume di volta in volta un titolo diverso e che si configura come una serie di camere tra loro collegate nelle quali sono collocati in bella mostra una serie di oggetti, mobili e abbozzi di azioni, in altre parole ‘indizi’ prelevati dalle precedenti performance del gruppo da Motel in poi. Questo «prototipo di un’opera museale coreografica» congela l’azione in camere percorribili e abitabili dove «l’ospite / spettatore è invitato a scegliere il suo tempo di fruizione muovendosi liberamente, scegliendo il suo percorso con la possibilità di tornare sui suoi passi per continuare a smarrirsi nel suo desiderio di visitatore».[13]

Ancora una volta i nanou sembrano rileggere Barthes quando scrive «ciò che Marey e Muybridge hanno fatto in qualità di operatores, io voglio farlo in qualità di spectator: io scompongo, ricompongo, ingrandisco e per così dire, rallento, per avere finalmente il tempo di sapere».[14] Ma come la fotografia «giustifica tale desiderio, anche se poi non lo soddisfa» perché «io non scopro niente: se ingrandisco, non faccio altro che ingrandire la grana della carta: disfo l’immagine a vantaggio della sua materia»[15] anche le immagini viventi che abitano le camere di Strettamente Confidenziale seducono e abbandonano il loro spectator sulla soglia del significato, costringendo il suo desiderio di visione a perdersi nell’immobilità della scena, nella ripetitività della coreografia, nella contemplazione intima e solitaria dei frammenti.

Il discorso sull’immagine fotografica operato dai nanou trova il suo ultimo compimento nella fotografia di scena, una forma d’arte da sempre considerata marginale, ma di enorme importanza, non tanto ai fini documentali (per i quali è certamente più efficace il video) quanto per la sua capacità di surrogare in immagini iconiche l’intera scrittura scenica; si pensi soltanto alle foto di scena di Ugo Mulas per L’opera da tre soldi di Giorgio Strehler, a quelle di Carla Cerati per il Living Theater, a Maurizio Buscarino per Kantor e più recentemente a Luca del Pia per la Societas Raffaello Sanzio.

Per l’intero ciclo di Motel, i nanou sono stati affiancati dalla fotografa Laura Arlotti che ha creato una serie di immagini che ben condensano l’intero processo di costruzione operato dal gruppo. Come ha evidenziato in merito Elio Grazioli:

i componenti di Nanou amano a loro volta scartabellare tra i libri e siti di fotografia e traggono spesso spunto da immagini che li colpiscono. Nella fotografia di scena, potremmo allora dire, ritrovano quella da cui sono partiti, ma reinterpretata da loro stessi.[16]
Attraverso la fotografia di scena, che congela le performance del gruppo isolandone dei frame, dei fotogrammi, i nanou quadrano il cerchio ideale sul proprio concetto di costruzione fotografica della scena stessa; la nuova produzione John Doe sembra prendere le mosse da questa idea di frame laddove la particolare architettura disegnata da Gianni Marocco in cui si svolge l’azione la declina dialetticamente come ‘cornice’, lasciando trasparire un’indagine ancor più approfondita sul concetto di identità e fuoricampo.


1 A. Morsiani, Scene americane, Parma, Pratiche Edizioni, 1994, p. 91.
2 Sullo spettacolo si rimanda a Motus, Io vivo nelle cose. Appunti di viaggio da “Rooms” a Pasolini, Milano, Ubulibri, 2006
3 Dal 1 ottobre al 28 novembre 2014 presso la Galleria Photology di Milano si è tenuta la mostra Hopperiana, con lavori fotografici di Luca Campigotto, Gregory Crewdson e Richard Tuschman.
4 R. Banks, Gregory Crewdson: Beneath the Roses, New York, Abrams, 2008, p. 8.
5 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 1980, p. 60.
6 M. Antonaci, ‘Chiavi di Motel: intervista a Gruppo Nanou’, TeatroeCritica, 15 giugno 2010, <http://www.teatroecritica.net/2010/06/chiavi-di-motel-intervista-al-gruppo-nanou/> [accessed 30 april 2015].
7 R. Barthes, La camera chiara, p. 60.
8 Ivi, p. 33.
9 Ivi, p. 11.
10 Ivi, p. 80.
11 M. Antonaci, ‘Chiavi di Motel: intervista a Gruppo Nanou’.
12 R. Barthes, La camera chiara, p. 68.
13 Testo tratto dal comunicato stampa del progetto Strettamente Confidenziale <https://www.grupponanou.it/progetto-strettamente-confidenziale/> [accessed 30 april 2015].
14 R. Barthes, La camera chiara, p. 100.
15 Ibidem.
16 E. Grazioli, ‘Fotografare il teatro’, Doppiozero, 21 ottobre 2011, <http://www.doppiozero.com/rubriche/14/201110/fotografare-il-teatro> [accessed 30 april 2015].
Motel . 2nd Room ph. Laura Arlotti

Motel, Seconda stanza - © Laura Arlotti - Dancer: Rhuena Bracci

30/04/2015 - Jennifer Malvezzi, Arabeschi