19/09/2014 - Andrea Pocosgnich, Simone Nebbia, Sergio Lo Gatto, Teatro E Critica
Un taccuino critico interamente dedicato a Camera 208 di Gruppo Nanou visto a Teatri di vetro 2014
Nel limbo di uno sguardo
di Andrea Pocosgnich
In Underworld di Don DeLillo uno degli accadimenti che stabiliscono il filo rosso della narrazione è relativo a un killer che uccide accostandosi con la propria automobile a quella della vittima, un video amatoriale registra l’osceno diventando immagine perturbante, reale più della realtà. «Continui a guardare non perché sai che succederà qualcosa – naturalmente sai che sta per succedere qualcosa ed è per questo che guardi, ma in realtà potresti continuare a guardare anche se ti capitasse di vedere il filmato per la prima volta senza saperne niente». Ammetto di aver avuto sensazioni simili all’interno di questo lavoro installativo e performativo di gruppo nanou, programmato alla Fondazione Volume di Roma per Teatri di Vetro 8. Come il protagonista del romanzo di DeLillo non riesce a staccarsi dal filmato io non riuscivo a porre la parola fine al lavoro di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci e dunque a dichiarare esaurita la mia presenza. Evocazioni di un percorso teatrale, di un immaginario coltivato in dieci anni di lavoro, nel quale si riconoscono gli ambienti visivi e sonori del progetto Motel, il più denso tra le esperienze del gruppo ravennate, dilatato tra il 2008 e il 2011; ma per i più attenti sono evidenti anche altri strappi di quell’immaginario, come la voce presente in Namoro che qui emerge magicamente da un vecchio tavolino in vetro. Una stanza dove si agitano inquietudini alla Doppio sogno di Schnitzler è invece la finestra che rivolge lo sguardo al futuro. Ma appunto è un contesto vischioso nel quale non si può non rimanere impantanati, dal quale è difficile fuggire: i performer si muovono tra le stanze con una drammaturgia impossibile da cogliere nella sua completezza spezzando così la linearità del tempo e facendoci cadere in un non luogo di accadimenti ipoteticamente infiniti. Siamo voyeurs intrappolati in un’atmosfera la cui densità erotica sfida continuamente l’inconscio e nella quale i gesti surreali disegnano evoluzioni senza tempo e scopo apparente, un limbo onirico in cui galleggiare senza far ritorno.
Il nitore e la sfumatura
di Simone Nebbia
Quando penso al lavoro del gruppo nanou mi viene in mente la reazione epidermica cresciuta di fianco alla percezione: dalla freddezza del primo approccio, quel primo quadro di Motel ruotato attorno a una tavola imbandita e insieme svuotata di corpo, al calore elegante di un tessuto che pian piano, sotto la luce intensa, iniziò a rapire gli occhi e a concretizzarsi non tanto come organismo, ma organo pulsante, prescelto tra i tanti a rendersi – per tutti – semantico. C’è una tensione lunga dieci anni nel lavoro di Marco Valerio Amico con Rhuena Bracci e Roberto Rettura al suono, una tensione erotica mai estetizzante (come poteva apparire a prima vista) ma materica, esclusivo segmento tra l’occhio e l’immagine in cui nulla altro può entrare. È dunque una relazione diretta, ciclica, quella che lega l’arte di nanou e il suo attraversamento. Ma tanto è nitida quanto prodotto di una asimmetria estetica che forse risuona come il più avvincente metodo di indagine, ora che i frammenti di dieci anni se ne stanno una stanza dopo l’altra, una stanza nell’altra, nell’opera “strettamente confidenziale” che è, tutte insieme, una stanza sola: la 208.
Mi perdo, nella stanza di stanze, a guardare e appuntare quale sia il punto di crisi, la crepa in cui si afferma la frattura della linearità narrativa – quindi estetica. Finché di suggestione mi nutro, vedo la nettezza e la sfumatura attraversare questi dieci anni: da un lato il rosso del tappeto e certi abiti, quella gonna di Anticamera, lo strappo della tovaglia e la pulizia della sparizione, la pelle vivida e il sussurro di voce (quindi il corpo), le pareti e gli specchi dell’alterità – non sagomata ma certa; dall’altro c’è della pelle il sudore vibrare oltre il movimento, il riflesso dei bicchieri di cristallo che cambiano angolo di visione, i vetri “piangenti” dell’abat-jour che riflettono frammenti di luce, lo schermo traballante in cui abitano gli occhi, le pedate su quel tappeto, per andare o tornare, sconnesse in un passo incerto. Ecco la tensione, mi stringe un’immagine, la catturo, capisco che mi appartiene: è carne e, insieme, l’occhio che la modella.
Un esercizio di libertà
di Sergio Lo Gatto
La Camera 208 non si attraversa, semplicemente la si accetta come un mondo a sé. Si può entrare in ogni momento e in ogni momento uscire, poiché il tempo è stato disegnato per essere differente, dilatato, non marcato. Scrive Gaston Bachelard ne La poétique de l’espace (trad. mia): «Ogni angolo di una casa o di una stanza, ogni centimetro di spazio nascosto che si possa eleggere a nascondiglio è un simbolo di solitudine per l’immaginazione; incarna il germe di una stanza o di una casa. […] La coscienza di essere in pace in un angolo produce un senso di immobilità che, in cambio, irradia immobilità. Una stanza immaginaria sorge attorno ai nostri corpi. Di per sé, le ombre sono muri, un pezzo di mobilio costituisce una barriera, qualcosa di pendente diventa un tetto. Ma tutte queste immagini sono sovra-immaginate. Dobbiamo dunque denotare lo spazio della nostra immobilità per renderlo lo spazio del nostro essere».
Le scene che gruppo nanou ha distribuito all’interno della Camera contengono delle azioni, ma le azioni sono a loro volta contenute in uno spazio frammentato e non esistono come una serie di ripetizioni a loop né come qualcosa di predefinito. Questo perché le microscopiche variazioni – che pure ci sono – sono diverse per ognuno degli spettatori. Spettatori che diventano di fatto parte di quello spazio e di quel tempo. Non esiste un punto di osservazione, ma solo una costante di visione, quella che trasferisce la visione totale di un corpo su particolari selezionati. Se il corpo di un performer conquista una lunga immobilità in cui l’unico muscolo a muoversi è un polpastrello o una pupilla, saranno quelli il centro dell’azione. Non rimanendo nulla che attiri lo sguardo, negata l’interazione, ogni muscolo è potenzialmente la forma più interessante, ogni correzione di posa quella definitiva.
Restituire all’opera il proprio tempo, quello della creazione, è possibile solo accettando che tutto ne diventi parte, dalla luce pura al puro silenzio, dal mormorio confuso di una traccia che si ripete al puro spazio vuoto che è – semplicemente – vuoto. Pieno di qualcosa che lì dentro ha già installato (in un momento non rivelato) il “proprio” tempo. È possibile solo accettando che lo sguardo stesso sia pure quello diventato parte, accettando dunque noi come parte dell’opera. Aggregata, così, se ne sta l’attenzione, aggrumata come per la prima volta, improvvisamente l’unica possibile.
Visto a settembre 2014, Fondazione Volume, Teatri di Vetro