Questi articoli fanno parte delle esercitazioni svolte nel workshop di critica teatrale ideato e condotto da teatroecritica durante Fuori Programma festival 2025 presso il Teatro India di Roma.

Courtesy of ORBITA | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza ph Giuseppe Follacchio
Paura e delirio nell’Oceano Indiano: redrum di gruppo nanou
di Francesca Lupo
Ogni comportamento ossequioso nei confronti della performance è bandito. Durante la giornata alcuni spettatori intercettano un foglio, un piccolo vademecum firmato da gruppo nanou, in cui si leggono consigli di fruizione di redrum, vincitore del Premio Ubu come miglior spettacolo di danza nel 2024 (ex-aequo con Stuporosa di Francesco Marilungo, in programmazione al festival il giorno seguente). Si è invitati a muoversi nella sala Oceano Indiano in cui palco e platea non hanno più confini, si può chiacchierare, entrare e uscire, addirittura scattare fotografie e registrare le azioni dei danzatori – chiaramente tutto senza disturbare. Dalle ventuno alle ventitré circa, il visibile e l’invisibile, il raziocinio e la fantasia, il materico e l’elucubrazione coesistono nelle quattro mura della stretta sala dal tetto alto. Alcuni rettangoli di moquette rossa, un paio di divani, qualche sedia, in fondo al palco un rombo avvolto da un telo rosa luccicante, mentre vicino alla platea un elegante tavolo regge bicchieri e brocche del servizio buono, dove i danzatori sorseggiano bevande trasparenti o rossastre. Sono numerosi i punti luce, la maggior parte poggiati per terra e dietro gli oggetti di scena, per formare ombre e rendere l’ambiente più fantasmatico. I sei corpi in scena si spostano lentamente, i movimenti sembrano passare da una posa all’altra, mimando grotteschi cadaveri o in piedi sul tavolo o sulle sedie. Gli spettatori sono un po’ timidi, pochi sfruttano effettivamente la possibilità di abitare tutto lo spazio così sono i performer che si avvicinano, alle volte accennando un sorriso, altre volte accostandosi semplicemente (perché magari in quel momento sono anche a testa in terra e gambe all’aria). Entrano ed escono dalla sala cambiandosi d’abito, in alcuni si può scorgere qualche sfumatura di carattere o quantomeno cogliere l’immaginario che del resto lo stesso titolo dichiara. Shining, dalle parole di King e dalle immagini di Kubrick, è riconoscibile nel rosso, nelle calzette infantili, nelle code e nei copricapi che ricordano il pelo dell’uomo-orso, nel maggiordomo che a ridicoli piccolissimi passi attraversa tutta l’installazione. È sicuramente difficile individuare un inizio ed una fine (confini non ricercati dagli autori) ma alcuni passi, gesti, movimenti ricorrono in determinati angoli della scena e sono eseguiti da determinati danzatori. Anche Bruno Dorella, autore ed esecutore in scena della musica, si sposta e si siede tra il pubblico, chissà se per incoraggiare gli spettatori a imitarlo o perché anche lui personaggio di questa visione. E con lui pure Marco Valerio Amico (che con Rhuena Bracci firma le coreografie – e l’uno le scene e le luci, l’altra i costumi), che interviene personalmente in scena per piantare un faro davanti a un terzetto, come se la scrittura dello spettacolo non fosse ancora terminata ma si arricchisce nel farsi. Pochi sono gli spettatori “filologici” che non vorrebbero perdersi un minuto della performance, infatti è Amico stesso che ci invita a uscire. La rappresentazione dell’incubo (o di un limbo o della morte stessa) spesso è ambientata, se non addirittura incarnata, da una discoteca, da un salotto, un luogo dell’effimero, dove per l’appunto una musica con un ritornello ben riconoscibile o con un ritmo da capogiro costringe a muovere la testa a tempo. La Loggia Nera di Twin Peaks, lo stesso Overlook Hotel, la più recente casa diroccata di Climax di Gaspar Noè – e gli esempi potrebbero continuare all’infinito – sono prigioni dove marcire, costretti a pensare, a ripercorrere il passato per comprendere dove si è sbagliato. E a tratti il postmoderno, la citazione della citazione, se da una parte è stato uno degli strumenti più floridi per la rivincita con un Novecento asfissiante, dall’altra può ben diventare una gabbia, un limbo. redrum è sicuramente un dispositivo di visioni, una performance che come tale è intrinsecamente interdisciplinare, senza tempo, godibile. Un foglio bianco a tratti illuminato da luci coloratissime il cui percorso è ricalcabile con una matita dallo spettatore, libero di raccontarsi la sua storia. Ma forse come si è entrati in sala, si è usciti, nel flusso di un immaginario la cui ultima pagina è stata già scritta, il cui ultimo frame è stato montato e ha già fatto la storia.
Redrum. Il lato perturbante dell’incanto
di Valter Pietrantozzi
Per tentare di spiegare quale genere d’incanto, o meglio che tipo di attrazione ipnotica provoca la visione di redrum di gruppo nanou per Fuoriprogramma 2025, vale la pena di scomodare due termini difficilmente traducibili in italiano per il significato molteplice, inafferrabile che hanno anche in inglese: weird e eeire. Indicano l’ossessione per ciò che è strano, ma anche per le cose fuori posto, fuori dalla norma . È questa l’esperienza che si prova entrando nella sala Oceano Indiano. La scenografia , i colori, gli oggetti d’arredo, una presunta opera d’arte in fondo alla sala che consiste in una tela rivestita da un drappo di tessuto, sembrano usciti da un film di David Lynch e di Stanley Kubrick. L’ atmosfera è quella di “shining” non solo in quanto film, ma proprio per lo splendore, la lucentezza, per la brillantezza dello sguardo performativo, delle immagini e dei colori. A ben vedere arrivano anche suggestioni alla Fassbinder (Querelle) o alla Nolan (Il cavaliere mascherato). Tutto questo per dire quanto dietro ci sia il gusto di quel cinema. I performer indossano tute Adidas in acetato fine anni 80, i divanetti sembrano affittati da un trovarobato di Blue Velvet. Il maggiordomo, uno dei personaggi più identificabili della messa in scena , sembra uscito da una stanza di Twin Peaks o addirittura della famiglia Addams. Soprattutto per la camminata a passi lenti e infinitesimali, il vassoio che porge nella sala, l’abito rosso che forse consegnerà a qualche ospite sconosciuto. Come contraltare reale , su un divanetto si staglia una famigliola formato pubblico, lì per caso per vedere lo spettacolo. Le ragazze del gruppo nanou danzano con una fluidità sensuale alternando una postura a quattro zampe con coda da animal body. Interagiscono con gli spettatori, si avvicinano. Si illuminano dei colori dei faretti disposti nella sala. C’è un personaggio alieno con una palla al posto del volto e incappucciato che balla con ritmo da discoteca. Ma quello che affascina ancora di più è che alcuni soggetti del pubblico a cui è permesso entrare e uscire liberamente dalla sala, potrebbero far parte anche loro della crew. Ecco perché in condizioni ottimali di percezione, ovvero se il pubblico non diventa troppo numeroso, il confine tra finzione e realtà di questa installazione coreografica diventa molto labile. È forse uno degli intenti del regista Marco Valerio Amico cercare di fare i conti con le due categorie estetiche di cui abbiamo accennato all’inizio che diventano il fuori posto o la calma inquietante del vivere in società? L’industria culturale ci presenta variazioni del sempre uguale indispensabili per soddisfare nicchie di mercato sempre in divenire. Si potrebbe ipotizzare anche di essersi imbucati in una festa in cui non si è mai stati invitati e di trovarla o molto interessante oppure noiosissima. Dipende dallo sguardo. Anche per le scelte musicali. Dipende dall’orecchio. Peccato per il catering che sicuramente c’è ma risulta invisibile, fantasmatico. Per il resto è stato bello, strano, ed eravamo li’ li’ sul punto di conoscere più da vicino il lato nascosto di qualcuno.
Voglio andare a una festa con i nanou
di Lara De Pasquale
Non hanno detto una parola e sono i miei migliori amici.
Non mi hanno mai toccata e sono i miei migliori amici.
Il loro nome non lo so, la loro storia nemmeno e sono i miei migliori amici.
redrum della compagnia gruppo nanou è quello spazio che mi prendevo a 6 anni sul tappeto rosso della cameretta per immaginare una stanza piena di persone interessanti. E come spesso succede nei sogni, nessuno di loro parla e le cose che dicono hanno la mia voce. Non per questo sono meno reali.
“Sono come le figure dentro un libro, Danny. Non sono cose vere”.
Eppure è tutto vivo nella stanza dell’Oceano Indiano del Teatro India. 5 attori e un performer abitano, in una quieta convivenza, uno spazio imprecisato nella sua longitudine e latitudine e precisissimo nella sua ambientazione. È la mia camera, la tua, la Hall dell’Hotel Overlook e il corridoio di un museo d’arte e,…
Nella scena di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci ogni elemento all’interno dello spazio scenico è, senza ombra di dubbio, protagonista degli accadimenti tanto quanto i danzatori/personaggi. L’elegante estetica fatiscente che strizza l’occhio alle ambientazioni da cui trae il suo citazionismo (lo Shining di Kubrik, Lynch con Twin Peaks) avvolge ogni spettatore.
Il dispositivo dello spettacolo lascia al singolo la scelta di sedersi dove vuole all’interno dello spazio scenico, persino spostarsi, stando però attento a non interrompere la vitale routine dei performer. Anche la tempistica è lasciata alla discrezionalità e al gusto dello spettatore, come prevedono spesso le regole di questo tipo di arte performativa. I danzatori, sono generosissimi nel loro corteggiamento. Inizialmente mi è stato difficile individuare in quale tipo di relazione entrassero tra loro e con noi, ma forse, come quegli animali di cui portano le code, superata l’iniziale diffidenza cominciano ad accoglierti e, con quel silenzio seducente fatto di sguardi vivi e gesti includono nei loro percorsi chi si affida al loro spazio.
Se l’esser parte della scenografia non basta allo spettatore per sentirsi parte del lavoro, il regista offre al pubblico un altro regalo, la concessione di vederlo interagire e guidare i suoi stessi artisti. Lo si vede comunicare con discrezione, con gli attori della scena, calcolando le tempistiche di entrata forse sulla base della temperatura del pubblico, forse per una sua sperimentazione personale. Ancora, avanza sul tappeto rosso e percorre tutta la scena impugnando un faro e tentare un gioco di luci sui suoi performer intenti nelle proprie routine. Meta-teatro? Forse sì, forse anche qualcosa di più.
Mi chiedo spesso come, nella ricerca artistica, possa io soddisfare il pubblico e andare incontro alle sue necessità, oltre che alle mie urgenze. Penso allora a una delle poche conversazioni con mio padre in cui ha manifestato un vago senso di accettazione nei confronti della mia scelta di intraprendere una carriera artistica. “Lara – mi dice – ho visto uno spettacolo bellissimo – (discutibile) – e mentre lo guardavo pensavo che anche io avrei voluto essere al suo posto e fare quello che faceva lui, perché era bellissimo.” Nell’emozionante ingenuità di un uomo ormai prossimo ai 70 che non ha mai avuto un particolare interesse per l’arte del teatro trovo tutta la potenza di Redrum, della compagnia Nanou (frequentatori e vincitori dei famigerati UBU).
Lo spettatore di Redrum ha la possibilità di essere parte del lavoro, di cambiare e stimolare gli attori, metterli in difficoltà perfino (purché si conservi il rispetto e la cura che si deve sia a questa Loggia Nera accogliente, sia al lavoro dei suoi abitanti). Frequentandolo per più di una volta e potendo osservare la loro ricerca modificarsi da sera a sera si ha quasi la sensazione di essere un loro assistente o assistito.
Il lavoro che ogni personaggio fa sul momento presente è fortissimo. Ognuno di loro (con caratteristiche e caratteri e obiettivi diversi) prende le sue scelte nell’immediato, pur seguendo una struttura ben definita e a più strati. Splendido è il lavoro di questo LARP [gioco di ruolo dal vivo] drammaturgico che lascia davvero spazio alla creatività attoriale, permettendole anzi di muoversi più liberamente, protetta da regole precise (John Cage sarebbe fiero di voi ragazzi). I danzatori sono a tutti gli effetti attori, i loro sguardi sono vivi, le loro scelte, le loro azioni, le dinamiche..
Il maggiordomo, il più legato alla sua routine, fulmina con uno sguardo gli spettatori troppi irriverenti, raccoglie bicchieri nascosi dietro i fari, decide di giorno in giorno se rubare i drink dall’angolo bar, rimanere sul lungo corridoio nero a osservare (Strade perdute?) o entrare subito. Le danzatrici sono inclini al sorriso, o alla sfida. L’uomo è più snob, sia con i suoi compagni sia con il pubblico, ma si concede più divertimento.
Ammirare i danzatori, dai movimenti fluidi eppur naturalistici, rispettare le loro routine si, ma romperle, riposarsi semplicemente. Il pubblico vede il personaggio andare in pausa e l’artista sceglierlo, senza mai rompere il patto della finzione. Questa sovrapposizione dei ruoli e delle scelte nel mondo del presente è quello che rende le arti teatrali così singolari e importanti. L’insindacabilità del rispetto che si deve ad un altro essere umano che comunica con noi è un tema e a suo modo Redrum ce ne parla.
Che sia uno spettacolo di virtuosismi, di convivenza, o di danza è un’esperienza forte. Niente di nuovo per gli stili dell’arte performativa, ma trovo sempre che la sincerità e il divertimento dell’artista facciano la differenza anche sulle correnti in cui si incasella.
Infine vorrei, ancora una volta, parlare della disposizione del programma.
Redrum si è tenuto per due sere di fila al teatro India, preceduto prima da Brother to Brother di Zappalà e il giorno seguente da Stuporosa di Francesco Marilungo. Due spettacoli che ci hanno raccontato delle forti relazioni di comunità, legate a territori precisati e identitari. Ancora la direzione artistica sembra agire con un guizzo di contrasto e se nei due spettacoli sopraccitati si assiste a racconti di vicinanza e meridionalità, Redrum si presenta all’opposto con relazioni fatte di sfioramenti e sguardi, o al massimo gesti-specchio, in quel Nessun Dove che è ovunque nella nostra immaginazione.