Parliamo di redrum loro ultima produzione, un archivio di memorie visive e gestuali del gruppo stesso, azzardiamo nel pensarlo addirittura come una sintesi perfetta di un percorso ormai ventennale.

redrum - Festival Fuori Programma, Roma. Foto: Giuseppe Follacchio
Anche il lavoro di gruppo nanou è parte di questa idea di un festival dalle tante anime, arrivando a Roma dopo un percorso che gli ha permesso di ridefinire un carattere di per sé installativo ma di volta in volta ricalibrato negli spazi frequentati.
Parliamo di redrum loro ultima produzione, un archivio di memorie visive e gestuali del gruppo stesso, azzardiamo nel pensarlo addirittura come una sintesi perfetta di un percorso ormai ventennale. Allestito anch’esso in una sala interna dell’India, crea isole sceniche e camminamenti, corridoi che modificano l’area tutta in una grande piattaforma mobile, come un’isola fatta di isole dove la mobilità è data solo ai e alle performer e nello sguardo dello spettatore (posizionato in diverse aree della sala oltreché sulla gradinata di platea).
Redrum è il grimaldello esperienziale che ci permette di riflettere sul tempo, sul concetto di visione personale e collettiva, mette a disposizione si diceva un archivio di accenti e traiettorie coreografiche e, come À rebours di Joris Karl Huysmans, ma senza la nostalgica retorica del romanzo, sistematizza un alfabeto di segni reiterandoli, svuotandoli di ascendenze, li rende persino “sgrammaticati” e per questo affioranti di splendore puro.
Per un notevole tempo che ci permette di entrare o uscire a piacimento, il lavoro prosegue il suo dispiegarsi in fasi di occupazione dello spazio, di verifica (anche fisica) degli ambienti, di innesco di azioni apparentemente casuali, forse lo sono, in quel mix estroverso di riempimento e svuotamento della percezione. Questa possibilità epigrammatica lascia trasparire un posizionamento liberatorio (e libertario) della durata (si diceva), nella consistenza o nell’evanescenza delle forme che vanno a compiersi in scena. Il dispositivo ha memoria di quel realismo modale già indagato nella trilogia delle stanze di Motel, dove tutti i mondi coesistevano, ma felicemente “inciampa” anche in una sorta di trattazione del rovesciamento (ancora un altro rovesciamento), dove quello che si vede non è quello che è, l’autentico è un pensiero sfuggente, un mascheramento, laddove Michail Michajlovič Bachtin riponeva molte speranze nell’inversione dei ruoli nel Carnevale, ci dice Richard Sennett.
Redrum è un lavoro asciutto e perfetto, fatto di traiettorie, passaggi accennati, ripensamenti, camminate in flessione con le braccia tese (vero loro logo d’autore della compagnia), cambi di rotta quando incrocia il fortuito passaggio di uno spettatore ignaro, di attese. Un rituale nel presente di sfida, a partire da sé, dalla propria storia.
13/07/2025 - Paolo Ruffini, Liminateatri
