È uno spazio-tempo sospeso quello di redrum: non ha un inizio e non ha una fine, accoglie il pubblico in un vuoto i cui margini vengono alterati di continuo.

Redrum - Sala Corelli, Teatro Alighieri, Ravenna
Foto: Zani / Casadio
È uno spazio-tempo sospeso quello di redrum: non ha un inizio e non ha una fine, accoglie il pubblico in un vuoto i cui margini vengono alterati di continuo.
Quello che funziona, nel nuovo lavoro di gruppo nanou, non è solo la qualità del movimento, precisa e libera allo stesso tempo. È anche l'autenticità dell'esplorazione delle possibilità che possono scaturire dalla relazione tra corpi, luci, suono e spazio, in una scoperta che si rinnova a ogni replica: niente di nuovo per la compagnia di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, che ha appena festeggiato i suoi vent'anni e che ha ricevuto (proprio con redrum) il premio Ubu come migliore spettacolo di danza. È forse proprio in virtù di questa continuità che alcuni aspetti, portati qui alle loro (non estreme) conseguenze, risultano impeccabili nella loro spontaneità.
Il titolo cita una delle più note scene di Shining: redrum sta per murder al contrario, in un'inversione della direzione di lettura e forse anche, qui, delle convenzionali regole di fruizione della danza. L'atmosfera da Overlook Hotel si traduce, nella concezione di nanou, in un mondo irreale in cui tutto è possibile, uno spazio sospeso abitato da visioni e ricordi dell'immaginario.
Il rapporto con le specificità dei luoghi (i velluti rossi della Sala Corelli del Teatro Alighieri di Ravenna, la fredda austerità della chiesa sconsacrata di San Bonaventura a Bassano; la semplicità industriale di BASE a Milano, per citare alcune tappe percorse fino ad oggi dal progetto) trasforma radicalmente lo spettacolo (o meglio, l'installazione performativa, come la definisce il gruppo) arricchendolo e privandolo di livelli di senso: emergono, così, le contraddizioni e le potenzialità di una ricerca che vuole negare il canonico rapporto pubblico-scena. Nell'annullamento della centralità del punto di vista prospettico si cerca così, ad esempio, di abolire l'assalita implicita nella struttura spaziale della "stanza": il ridotto di un teatro, una navata industriale o l'abside con cui si conclude l'aula ecclesiastica, spazi "neutri" eppure spesso condizionati dai vincoli posti dalla loro teatralizzazione (la presenza di un ring che indica la presenza di un "palco" o una gradinata telescopica che suggerisce vi possa essere una platea). I dispositivi che operano questa negazione sono innanzitutto i movimenti dei danzatori e delle danzatrici. Le coreografie tagliano lo spazio con attraversamenti e geometrie che negano la frontali teatrale. I performer si avvicinano al pubblico senza indugi, si insinuano negli spazi nascosti nella prossimità delle pareti, nell'ombra di un pilastro, nella sospensione di una mensola, nella spazialità di una navata laterale, rendendoli visibili: anche questi residui possono diventare, reimpiti di movimento, ombra e luce, centralità sceniche.
Lo sguardo del pubblico viene così continuamente spostato e sorpreso. Le luci segnano diagonali e fuochi privilegiati: giocano con i colori e con le ombre, come di consueto nella ricerca di nanou, e vengono spostate manualmente da Marco Valerio Amico, in un atto che partecipa in tempo reale alla trasformazione ed evoluzione della performance.
Un altro aspetto in cui facilmente si riconosce la firma di nanou sono i costumi (pensati da Rhuena Bracci): capi comodi e sportivi sono la base su cui si aggiungono corpetti di pizzo, code di animali, gonne a pieghe, camicette ricamate, gilet di seta.
Le figure dei performer assumono così diverse esteriorità e ruoli, evocando figure familiari e allo stesso tempo aliene: un palloncino infilato sotto al cappuccio di una felpa trasforma la corporalità di una sagoma, o i capelli davanti al viso ricordano personaggi immaginari da film horror. Un improbabile barman, muovendosi a piccoli passi, serve un cocktail a un avventore invisibile, e il dispiegarsi di drappi di tessuto dorato risignifica la sobrietà del vuoto.

redrum - Sala Corelli, Teatro Alighieri, Ravenna
Foto: Zani / Casadio

Redrum - Sala Corelli, Teatro Alighieri, Ravenna
Foto: Zani / Casadio
Sulle musiche di Bruno Dorella, che suona dal vivo in alcune repliche, Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Andrea Dionisi, Agnese Gabrielli e Marco Maretti seguono partiture di movimento isolate e allo stesso tempo comuni, alternando distanza e prossimità. La dimensione dell'assolo incontra gli altri danzatori nelle diagonali e nelle rotazioni, nelle variazioni su camminate che tagliano con decisione lo spazio con andature e ritmi diversi, con ripetizioni e ritorni delle geometrie del movimento che procedono talvolta in coppia o in gruppo.
Lo spettatore è informato, con un foglio di istruzioni per l'uso o con il passaparola (sì, durante lo spettacolo si può anche parlare), della propria libertà: non solo può entrare quando vuole e fermarsi per il tempo che desidera, ma può spostarsi, sedersi a terra o sulle poche sedie disposte sul perimetro dello spazio, avvicinarsi ai danzatori e agli oggetti di scena secondo il proprio desiderio. In alcune repliche può persino consumare al bar. La risposta del pubblico cambia di replica in replica, influenzata anche dai caratteri dei diversi luoghi della tournée. Ma la consapevolezza della libertà della fruizione cambia, in ogni caso, la qualità della propria presenza. Se alcuni spettatori provano un divertito compiacimento a porsi nel centro di quella che - annullamento delle convenzioni a parte - è percepita come scena, alimentando scambi e variazioni sulle partiture di movimento, il pubblico è il più delle volte reticente ad abbandonare la sicurezza dell'osservazione dai margini dello spazio: non va letto, in questo, un fallimento delle intenzioni partecipative. Piuttosto, è la constatazione di un effettivo godimento della contemplazione della danza con uno sguardo di insieme, capace di abbracciare l'imprevedibilità degli avvenimenti nella sua interezza e nei dettagli.