Alphabet è un dispositivo messo a punto per fare chiarezza sulla composizione coreografica. Un progetto pluriennale nato per rispondere alla domanda “Perché la danza contemporanea risulta e viene percepita come un oggetto tanto complesso e difficile?” Ci racconti come è nato?
Nel 2016 avevamo debuttato con Xebeche e avevamo ricevuto come riscontro – da persone di cui avevamo piena fiducia – alcune annotazioni sul fatto che era uno spettacolo difficile. A me sembrava, invece, di avere fatto un grandissimo sforzo per renderlo elementare. È stato allora che abbiamo iniziato a interrogarci sulla ragione per cui il nostro lavoro risultasse tanto complesso da leggere. Stavamo commettendo errori di lettura o di comunicazione? Per trovare una risposta ci siamo messi in sala prove ad analizzare punto per punto il nostro processo compositivo, per trovare delle parole che sintetizzassero in maniera inequivocabile (almeno per noi) dei concetti e delle pratiche, per lavorare su un’evidenza. Nel corso di due anni abbiamo trovato quattro macro-luoghi compositivi: corpo, tempo, spazio e relazione. Abbiamo compreso che sono quattro elementi imprescindibilmente legati tra loro e li abbiamo analizzati stabilendo delle gerarchie temporanee, mettendo quindi il fuoco di volta in volta su uno di essi.
Dopo un anno abbiamo incontrato degli studenti di storia del teatro e della danza dell’Università di Parma e li abbiamo messi davanti ai nostri dispositivi – percorsi di improvvisazione che partono da regole dichiarate – chiedendo loro di leggere quello che accadeva enunciando delle parole chiave durante l’azione. Si è determinato un percorso che potremmo definire di eterodirezione: nel momento in cui uno studente nominava quello che vedeva, il danzatore ne prendeva coscienza e restituiva l’azione con maggiore evidenza. Nei momenti in cui la proposta non era chiara arrivavano i silenzi, o le parole chiave diventavano “frasi” indicando che quello che stava succedendo era confuso.
Xebeche [csèbece] – © Daniele Casadio – Dancers: Sissj Bassani, Marta Bellu, Marco Maretti, Rachele Montis
Oltre agli studenti avete coinvolto professionisti di altre discipline, ad esempio architetti. Perché?
Perché entrambi ci occupiamo di scrittura dello spazio. L’intuizione di ragionare con degli architetti si è strutturata grazie al festival Ipercorpo: attraverso una chiamata pubblica organizzata dal festival e con l’aiuto dell’Ordine degli Architetti di Forlì abbiamo incontrato trenta progettisti, la maggior parte dei quali si occupava di spazi urbani. Abbiamo iniziato a indagare lo spazio su tre piani: quello coreografico, quello abitativo (dal punto di vista tanto del danzatore quanto del pubblico) e quello percettivo, grazie alla collaborazione con Daniele Torcellini sul colore.
Con gli architetti ci siamo permessi di sperimentare fino in fondo: abbiamo creato delle azioni su base improvvisativa ma con una struttura ben definita, senza dare indicazioni spaziali allo spettatore per vedere come reagiva, cioè come lo spettatore avrebbe determinato in autonomia il “proprio” punto di visione. Su due repliche è successo qualcosa di molto interessante da osservare nel comportamento del pubblico: il primo giorno si è intromesso nello spazio scenico, il secondo giorno si è fatto parete disponendosi nella convenzione teatrale. Eppure le informazioni sceniche erano le stesse.
Il colore si fa spazio – © Gianluca Naphtalina Camporesi – Dancers: Sissj Bassani, Rhuena Bracci
In esperimenti come questi, il dialogo con i non danzatori avviene solo attraverso la parola e la discussione dei principi compositivi o anche attraverso la loro partecipazione al movimento?
Gli aspetti più importanti sono l’osservazione e il dialogo, che partono dall’acquisizione e dalla comprensione delle logiche. L’enunciazione delle indicazioni coreografiche consente ai non danzatori di entrare nella coreografia: iniziano ad ascoltare le regole, molto pragmatiche per quanto in un ambito astratto, per poi riconoscerle nella composizione.
Allo stesso tempo è molto interessante scoprire come, nel momento in cui la metodologia viene passata a degli amatori, “alfabeto” viene immediatamente compreso ed eseguito in modo perfetto da un punto di vista schematico / progettuale. Con i danzatori notiamo una titubanza iniziale sull’attuazione del “progetto” perché hanno un’attenzione sul corpo che li distrae, in prima battuta, dal sistema, rendendolo evidente con le loro possibilità atletiche solo in un secondo momento: sono tutte informazioni su cui stiamo ragionando.
Sembra esserci un doppio livello: quello dello spettacolo e quello della spiegazione per elementi. Volete togliere al pubblico la preoccupazione di non capire?
Alphabet è un dispositivo concettuale il cui obiettivo fondamentale è, per me, cercare di non porre più domande allo spettatore, ma permettere che tutto sia inequivocabilmente corretto, seppure non necessariamente decifrabile. Se mi trovo davanti a un geroglifico non so cosa voglia dire, ma so che è corretto.
Per fare questo abbiamo dovuto togliere l’elemento drammatico, cioè qualsiasi elemento che fosse di rimando narrativo. Abbiamo spostato il lavoro sul piano di un’analisi ‘scientifica’ perché cercavamo una sospensione del gusto, del giudizio, della buona esecuzione per un’osservazione del meccanismo. È un discorso di stratificazione dell’informazione: ogni informazione deve avere la sua indipendenza e proprio perché messa insieme ad altre acquisisce un valore diverso.
Uno dei rischi della moda della “formazione del pubblico” è la semplificazione. In realtà il pubblico risponde in termini opposti, cioè non vuole vedere cose semplificate. In un esperimento come Alphabet il punto sembra essere dare degli strumenti per capire la complessità.
Sì. Più che spiegare, si tratta di offrire degli strumenti per poter leggere:
informare che in tutto il nostro lavoro la necessità non è quella di creare una figura, intesa anche come elemento narrativo o simbolico da decifrare, ma che tutto nasce da indicazioni “sportive” che innescano un sistema; che le immagini sono detriti, residui, scarti, incidenti di quel sistema; offrire l’informazione di un’azione che permette a ogni corpo che la esegue di applicarla in modo da rimanere diverso, unico eppure esatto ed aderente all’informazione; informare il pubblico su qual è il punto di vista con cui osservare l’oggetto che proponiamo.
Questa è la scommessa.
Alphabet si declina in diversi elementi o capitoli: campo, sistema, colore e mappe. Sono questi gli elementi base per la lettura della danza? Come li avete individuati?
Abbiamo analizzato il nostro lavoro punto per punto, andando a trovare i temi (e i titoli) con procedimenti empirici. Lavorando sullo spazio, abbiamo iniziato a mettere del nastro adesivo a terra per creare limiti che piano piano hanno determinato una figura con delle caratteristiche di stimolo del corpo: così siamo arrivati alle ‘mappe’. Con ‘campo’ si è determinato il punto di osservazione, mentre ‘sistema’ ha tolto il punto di osservazione. Il ‘colore’ è la ricerca che stiamo facendo con Daniele Torcellini. Ma arriveranno altri temi e altri titoli.
Il colore si fa spazio – © Daniele Casadio – Dancers: Daniele Albanese, Rhuena Bracci
In un tuo scritto parli del disegno dello spazio come “strumento per evidenziare e chiarire l’attività coreografica”. La mappa sembra diventare una griglia, un principio compositivo che offre delle regole in cui orientarsi, ma che non deve diventare una gabbia restrittiva.
È una griglia vera e propria, in cui trovare l’errore. Siamo partiti da una diagonale, che è diventata una croce, che è diventato un disegno. La diagonale aveva il problema che catapultava fuori e basta senza offrire una possibilità cinetica di sviluppo dell’azione, nella croce il vertice diventava un polo attrattore troppo forte nelle attività, mentre il disegno nel forzare progressivamente questa croce ha iniziato a evidenziare delle possibilità di rivoluzione dello spazio: dei punti di fuga e allo stesso tempo delle forme geometriche all’interno, dei territori che possono essere abitati. Sono come i corridoi e le stanze di una casa: esattamente come ristrutturando e arredando una casa cerchiamo di immaginare delle possibilità d’uso di quello spazio, la stessa cosa avviene con la nostra mappa. Quando più persone abitano lo stesso spazio si creano attività e situazioni che lasciano delle incognite, che sono quelle dell’interpretazione del danzatore e della fruizione del pubblico. Per tornare al confronto con gli architetti, è come quando si disegna una piazza e si decide dove mettere le panchine o gli attraversamenti: ci sarà sempre qualcuno che si siederà per terra o che attraverserà l’aiuola.
Alphabet - © gruppo nanou - Dancers: Carolina Amoretti, Sissj Bassani
E quel nastro adesivo resta visibile durante la performance a indicare le aree e rendere visibile il dispositivo?
Una volta abbiamo provato a toglierlo, dopo avere lasciato il tempo per la lettura. Così abbiamo verificato quello a cui volevamo arrivare: che il pubblico leggesse che il danzatore non fa movimenti casuali ma segue le informazioni di un codice.
Parlando dello spazio coreografico fai di frequente riferimento all’abitare (spazi domestici o pubblici). La coreografia genera e svela spazio: fa vedere le cose in modo diverso? Crea consapevolezza anche nel quotidiano?
La base dell’esistenza di Nanou è che ognuno è responsabile di se stesso e non è mai “colpa” dell’altro se qualcosa non funziona. L’attitudine è quella di creare spazi sempre fluidi, di essere autoriali ma anche ricettivi: è come trovarsi in uno spazio pubblico pieno di gente e attivare dispositivi di attenzione per un ritrovamento creativo nell’imprevisto. L’osservazione degli altri può insegnare e svelare qualcosa che da soli non si è capaci di costruire. Vogliamo trovare l’equilibrio in un dispositivo “anarchico”, con un bilanciamento continuo della parametrizzazione tra partitura e humus improvvisativo.
Cosa rappresenta per te il termine “dispositivo”? come si traduce nelle pratiche coreograifche e in un comune vocabolario con il pubblico?
Lo intendo come modalità di avviamento (o spegnimento) di un meccanismo. Non lo paragono al device elettronico, non è qualcosa che mi fa fare altro. Piuttosto indica quali sono le regole che possono innescare un’attività.
Alphabet - © gruppo nanou
Alphabet, così come altri vostri lavori precedenti, mette in discussione la relazione frontale e prospettica con il pubblico. Avete presentato i vostri lavori sul palcoscenico e in luoghi non teatrali. Come cambia la relazione con il pubblico? Come cambia la fruizione del pubblico applicando coordinate spaziali e temporali diverse da quelle tipicamente teatrali?
Il pubblico e la modalità di fruizione sono elementi molto importanti a seconda di come vogliamo fare fruire l’oggetto in questione. È molto chiara la differenza tra uno spettacolo da palcoscenico e uno non da palcoscenico: nel primo caso, da un punto di vista relazionale, chiedo allo spettatore di stare seduto su una sedia per un lasso di tempo determinato, quindi devo essere cosciente di quali possono essere i tempi o gli inneschi capaci di portarlo dove mi interessa. Nella modalità di osservazione relazionale “immersiva” invece, che sperimentiamo già dal 2013, chiediamo al pubblico di essere libero come in un museo, prendendosi il tempo necessario per se stesso, al contrario di quanto avviene nel tempo teatrale e nella frontalità della visione. In questo ambito sono nati dei meccanismi interni per capire come creare la distrazione attraverso la noia, per far muovere il pubblico attraverso dei tempi di soddisfazione e di esaudimento del nutrimento di un’immagine o di una situazione. In alcuni casi si sono create micro comunità estemporanee, dei luoghi di interscambio all’interno dell’installazione stessa, e attraverso il confronto le persone sono tornate a vedere quello che un altro aveva visto ma che a loro era sfuggito. Una cosa che ancora non mi hanno fatto fare è mettere un bar all’interno di un’installazione, e quindi fare sì che il pubblico possa chiacchierare e bere mentre assiste alla performance.
Adesso si parla tanto dello spettatore attivo e partecipante. Alphabet sembra consolidare l’ipotesi che si possa comprendere ciò che avviene sulla scena partecipando al processo. Su questo aspetto ci sono posizioni molto diverse: secondo te è importante per lo spettatore essere messo a parte del processo? Provare a danzare, a entrare nei modi del fare cambia il modo di guardare?
Lavorando ad Alphabet abbiamo capito che il concetto di pubblico è troppo vago. In un’indagine analitica del pubblico è necessario occuparsi di categorie diverse (studenti di una certa facoltà, architetti, fotografi, ...) in modo da trovare elementi comuni di dialogo e di fascinazione rispetto all’oggetto in esame: il territorio in comune non può essere solo la performance, ma un suo aspetto riferito alla comunità di riferimento (ad esempio per gli architetti lo spazio). In un procedimento scientifico è fondamentale eliminare delle variabili, per poi eventualmente aggiungerle e verificare se la tesi funziona. Per questo tipo di approccio, avere un’ utenza generica per determinare un incontro diretto, su una materia che non è ancora “spettacolo”rischia di confondere.