Di cosa parla lo spettacolo Sport?
Sport è un’immersione nella concentrazione e nella solitudine di uno sportivo, di un atleta che qui è anche una danzatrice.
Cosa accade in scena?
In scena si svolgono preparazioni ed esercizi della ginnastica artistica che, mano a mano, vengono scomposti, messi al microscopio, trasformati per entrare dentro a una “logica della sensazione”. Per definirla con le parole di Deleuze.
L’atto atletico diventa un mezzo, un’azione che rende il corpo necessario a registrare la vertigine così come l’esattezza del gesto.
Quando iniziammo a lavorare allo spettacolo, Rhuena Bracci (ex-ginnasta, interprete e coautrice con me del lavoro) mi disse: “nella ginnastica i salti assumono quella forma perché se sbagli cadi di collo. Non puoi avere una forma diversa. E’ la necessità che ti porta ad organizzare il corpo il quel modo. Ricordati sempre il cambiamento del salto in alto. Ora si fa di schiena perché così riesci a saltare di più.”
E’ un’organizzazione razionale per il raggiungimento di un obiettivo. Non è un fatto estetico.
Da qui tutto il lavoro che parte dall’esecuzione sportiva degli esercizi fino a trasformarsi in una danza che trova la sua necessità pragmatica per la costruzione del movimento. Mi permetto di dire che è un movimento “sportivo” allora, sapendo di giocare con tanti equivoci linguistici.
Quell’esattezza e quella necessità però sono capaci di scatenare un’attrazione formidabile, poetica come quella descritta ne “il funambolo” di Jean Genet
E’ possibile sonorizzare la soggettività?
Si è lavorato con Roberto Rettura, altro co-fondatore di Nanou, per sonorizzare la soggettività sfasando l’evento sonoro rispetto all’azione. L’applauso in palestra diventa un riverbero o viene udito fuori tempo rispetto all’esecuzione atletica. Perché durante l’esercizio l’atleta si isola e riapre l’attenzione verso l’esterno con tempi diversi da chi partecipa come tifoso.
Sfasare, scomporre, lavorare su un suono reale e plasmarlo per afferrare come quel suono, un applauso ad esempio, sia un ascolto fra mille pensieri.
Su questo il linguaggio cinematografico con le sue esperienze ci è stato di grande aiuto. Per fare un esempio conosciuto, un esempio che ci portò Roberto all’inizio del lavoro: pensiamo alla percezione uditiva che Spielberg offre nella scena iniziale di “Salvate il soldato Ryan” in cui l’audio è una percezione del protagonista a cui è scoppiata una bomba e ha compromesso l’udito. E quel semplice espediente, porta noi a percepire quelle immagini diversamente.
Cosa avviene all’interno della mente e del corpo di un atleta?
Dentro al corpo e alla mente di un atleta durante l’esperienza performativa c’è certamente una tensione, una diversa apertura dei sensi, come per un animale quando si presenta un pericolo.
Il lavoro sta proprio lì, nel cercare di afferrare la tensione che si genera e trovare quello spazio che non diventa descrizione dello stato dell’atleta ma percezione. Suggerimento di uno stato psico fisico che possa portare lì anche lo spettatore, nella stessa tensione, per diventare meraviglia perché l’atleta è (sempre parafrasando Genet) “deciso a tutte le bellezze e capace di tutte”.
Questo spettacolo è il secondo che portate in scena nella rassegna ipercorpo, il primo è stato ieri Arsura. Cosa caratterizza la vostra danza?
La nostra danza è sicuramente una danza concettuale che però ricerca un’empatia epidermica.
Mi spiego meglio: quando guardiamo il cielo, la volta celeste, tutti noi ne rimaniamo colpiti. Se non siamo astrofisici, difficilmente potremo dire perché una stella è lì e quali siano le leggi fisiche che determinano ciò che stiamo osservando. Eppure ne rimaniamo incantanti.
Così intendo la danza: un sistema, un linguaggio criptato che però si rende evidente per la sua meraviglia.
Le migliaia di pensieri, idee, regole, limiti che ci diamo internamente per ogni progetto, sono strumenti per scatenare un immaginario che possa essere varco d’entrata per lo sguardo. Da lì, ospitare a casa nostra l’avventore. Portarlo dentro una visione e una percezione che è nostra.
Per ottenere questo, da subito abbiamo capito che gli strumenti a nostra disposizione, corpo, luce, suono, scena, dovevano collaborare per ottenere un risultato di insieme. Gli strumenti devono organizzare uno spazio in maniera agerarchica perché il suono possa diventare corpo, così come la luce possa diventare ritmo e il corpo possa riscrivere il tempo.
Il cinema ce lo ha mostrato più e più volte, così come la pittura e la fotografia.
La pittura, ad esempio: un quadro di Caravaggio esposto nella chiesa in cui è stato pensato, si nutre della luce di quella chiesa e di quello spazio. Portato fuori da lì è un quadro di Caravaggio. Lì dentro collabora con un ambiente autonomo diventando qualcosa di più.
Almeno per me.
Cos’è la danza proibita?
C’è la sensazione forte che il danzare sia percepito come proibito.
L’attuale situazione, il distanziamento fisico, la paura del contagio, i protocolli da rispettare, il vedere con difficoltà più corpi in scena… questi elementi fanno percepire la danza come una pratica ad oggi proibita.
La danza ha con se il corpo e lo spazio. Durante la chiusura, il corpo è stato lasciato solo in spazi ristretti. L’erotismo, inteso come capacità di attrazione, è stato sublimato attraverso i social network. Ma la danza è carne, ossa, contatto, sudore, fiato… tutte cose che oggi vengono lette con circospezione, almeno nella vita quotidiana.
Il pensiero è quindi di dare valore a questa senso di proibito ristabilendo la percezione di un contatto. Su palco, ci sono protocolli che ci permettono di danzare. Avere coscienza che, pur seguendo il protocollo, si può scatenare un desiderio, anche solo attraverso lo sguardo, di una vicinanza.
Il pubblico, che oggi è in difficoltà quanto noi, credo abbia bisogno di sentirsi partecipe, di sapere che quella danza è davvero con lui e che il suo desiderio di sguardo può essere trasformato in percezione epidermica ritrovando quindi un’esperienza fisica, di partecipazione dal vivo.
E quanto c’è di dialogo tra danza e teatro nelle vostre performance?
Credo che nel nostro lavoro ci sia molto dialogo fra danza e teatro, così come con l’arte visiva, il cinema, la fotografia, la pittura e tutte le arti.
Ogni linguaggio può offrire dei suggerimenti, degli stimoli che possono essere mezzi per esaudire un’idea.
Bisogna però uscire dall’idea che la danza e il teatro siano dei generi. Nella danza e nel teatro ci sono moltissime differenze e moltissime assonanze, sopratutto quando si fanno opere artistiche e non spettacoli d’intrattenimento. Poi, certamente ci sono delle grammatiche che rendono efficace lo strumento.
Mi è capitato più volte di riconoscermi in spettacoli teatrali e altre volte di non riconoscermi in spettacoli di danza. Così come alle volte ho trovato la coreografia in un’installazione di arte visiva o in una fotografia.
Per me la danza racchiude tutte le arti, per questo l’ho scelta. Da che ho cominciato a studiare, ho visto nella danza una tensione continua verso la ricerca e l’azzardo e verso l’osservazione di altri strumenti e linguaggi.
La danza è per me un territorio, un avamposto dove poter sperimentare e nutrirmi.
