Da un po’ di tempo ho in testa un titolo, che mi viene in mente ogni volta che si parla di residenze, di contemporaneità e produzione: «Che confusione sarà perché ti amo». Vorrei iniziare a usarlo da qui. Un primo capitolo. Quando parliamo di elementi produttivi, di residenza e di processi creativi è necessario — come suggerito da Daniele Villa (cfr. prospettive teatrali n. 37) — fare delle distinzioni.
Prima di tutto, che cos’è una residenza?
È una residenza produttiva? Se sì lasciatemi chiuso dentro la sala a pensare e a trovare una strada per realizzare uno spettacolo.
È una residenza di ricerca che ha bisogno di confronti? Allora organizziamo un percorso di incontri insieme alla struttura ospite.
È una residenza in cui ci si confronta sui linguaggi con altre compagnie? Iniziamo una costruzione insieme, magari chiedendo alle stesse compagnie con chi confrontarsi artisticamente, per individuare quali sono le necessità creative del singolo artista rispetto al proprio percorso.

Ricchi e poveri

Ricchi e Poveri

Vorrei fare chiarezza sulla necessità del “confronto” nelle residenze, nelle numerose aperture al dialogo che avvengono durante le pratiche di sviluppo e costruzione di percorsi artistici.

gruppo nanou, come molte delle compagnie che sperimentano l’esperienza delle residenze, sta intraprendendo un percorso di ricerca in costante confronto con l’arte del ’900. E qui si pongono i primi problemi: il ’900 artistico non è diventato immaginario popolare né pensiero condiviso e al pubblico possono quindi mancare numerosi passaggi linguistici che determinano le nostre scelte.
Nel 2004, quando abbiamo realizzato il nostro primo lavoro, e ancora non ci chiamavamo “nanou”, andammo a parlare con un importante direttore di teatro e lui ci disse: «Mi piace molto il vostro spettacolo, ma per farlo apprezzare al mio pubblico dovrei cominciare un nuovo percorso di formazione. Non ne ho più le forze, non ne ho più la voglia».
Mi rendo conto che dal 2004 a oggi questo atteggiamento è stato reiterato in vari modi: molti teatri sostengono che il linguaggio contemporaneo e di ricerca non è adatto a i loro palcoscenici perché non riesce a riempire una sala ampia. La ricerca viene percepita univocamente come difficile da capire e quindi difficile da proporre. Per questo sarebbe interessante sistematizzare incontri, laboratori, work in progress per creare una politica culturale che sappia interessarsi e incuriosirsi anche al nuovo, che possa crescere insieme alle visioni che l’arte è in grado di produrre e per condividere i pensieri e gli intenti artistici. Qui sarebbe necessario sistematizzare istituzionalmente delle pratiche di apertura e condivisione, nel tempo, immaginando continui travasi e comunicazioni con chi già pratica questo tipo di operazioni, come le residenze. A partire dallo scorso anno (2017), in opposizione a tutti i sistemi di iperproduzione che ci circondano, siamo entrati in un processo di ricerca e abbiamo pensato di starci più o meno cinque anni! Un processo di ricerca che sceglie di farsi dialogo: la domanda di partenza è questa: «Perché la danza contemporanea risulta e viene percepita come un oggetto tanto complesso e difficile?» È nato un progetto di ricerca sul linguaggio coreografico, Alphabet, che prende spunto dal percorso di scrittura di Roland Barthes: da Elementi di semiologia (1964), libro difficile da decifrare, a La camera chiara (1980), quasi un’opera divulgativa, Roland Barthes ha lavorato per raggiungere esattezza e chiarezza del proprio linguaggio senza cedere alla riduzione del concetto. Ha reso la sua opera più immediata, quasi divulgativa, direi esatta.
Il desiderio di Alphabet è di arrivare a un processo di sintesi del proprio linguaggio per determinarne l’evidenza. L’evidenza non ha nulla a che vedere con la didascalia. Significa osservare una cosa alla volta e, su ciascun segmento, costruire occasioni di incontro e di riflessione. Facendo ricerca, presupponendo di tentare di costruire un diverso linguaggio, nasce la necessità di porre correttamente il punto di osservazione, di condurre e guardare l’opera da diverse posizioni e condividere lo spostamento di osservazione.

Per un lavoro di questo tipo è importante trovare interlocutori con cui condividere territori.

Noi ci occupiamo di danza. Per noi la danza è spazio e tempo. Per questo abbiamo fatto, tra gli altri, un incontro meraviglioso con l’ordine degli architetti di Forlì, in collaborazione e in co-produzione con il festival Ipercorpo/Città di Ebla, in cui ci siamo misurati su territori comuni, mettendo a confronto la composizione artistica con la gestione di uno spazio pubblico, sperimentando insieme nuove modalità di accesso alla visione e iniziando così un’operazione di interscambio.
Non si tratta di audience engagement o audience development. Non confondiamolo con il teatro partecipativo.
Il lavoro si nutre delle competenze altrui entrando in diversi territori, confini che permettono passaggi e attraversamenti.
A Parma un’altra esperienza significativa del progetto “Alphabet”, in collaborazione con il festival May Days e l’università, ha coinvolto alcuni studenti di storia del teatro e di storia della danza che, paradossalmente, non avevano mai visto uno spettacolo di danza contemporanea o di teatro contemporaneo. Non abbiamo chiesto agli studenti di danzare con noi, abbiamo chiesto loro di “leggere” la coreografia con noi, perché sarà forse il loro mestiere di domani. Si è determinata un’improvvisazione coreografica che insieme veniva composta, ricomposta, smontata, deflagrata. Abbiamo condiviso strumenti e siamo entrati in uno spazio liminare, di dialogo.
Ultimo esempio: nel 2008, insieme a Fabio Biondi, trovando risorse tra Regione e Patto Stato-Regione, abbiamo iniziato un processo quadriennale di incontri tra artisti accompagnati e sostenuti da L’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino e Centrale Fies, Dro (TN), alla ricerca di un dialogo fra linguaggi e metodologie che superassero il riconoscimento attraverso forme e strumenti usati per il rendimento scenico. Il progetto si chiama Aksè — AgoràKajSkenè costruito tra il 2008 e il 2012 da gruppo nanou con L’Arboreto di Mondaino e Centrale Fies, di cui si ha resoconto nel libro Aksè. Vocabolario per una comunità teatrale, a cura di Mauro Petruzziello, pubblicato da L’Arboreto Edizioni. Entrando nella condizione di prendersi tempo, quasi una nostalgia di un tempo perduto, sono nati alcuni progetti che per l’epoca furono molto importanti come le opere di Santasangre, Muta Imago, Collettivo Cinetico, Città di Ebla, Teatro Sotterraneo, e tanti altri. Fin dall’inizio questo progetto ebbe, grazie alla presenza di Lorenzo Donati, una fortissima relazione con l’aspetto critico: una relazione diretta per attraversare insieme luoghi di residenza, per riflettere sui linguaggi.
Questi tre esempi, queste tre pratiche nate sotto un’unica propulsione, servono per suggerire che l’approccio al dialogo, al confronto, prima di arrivare all’oggetto “spettacolo”, che è sintesi di un processo, deve avere una domanda di partenza: con chi sto parlando? Con il barista, con le scuole, con l’università, con dei professionisti?

Sono diversi i rapporti e i linguaggi che possiamo utilizzare e che dobbiamo saper affrontare.

Queste situazioni in cui il punto di scambio è l’incontro devono essere necessariamente ogni volta diverse. L’artista ha prima di tutti il dovere di comprendere che cosa sta mettendo in campo e a chi si sta riferendo. Le istituzioni dovrebbero iniziare ad essere pronte e collaborative per innescare nuove opportunità. A partire dai teatri che spesso sono restii a intraprendere percorsi e progetti al di fuori della programmazione di stagioni. Si deve comprendere che è soltanto attraverso una seria operazione culturale sul territorio — volta a colmare quel gap sul Novecento che riguarda quasi tutto il pubblico potenziale — sarà possibile riempire di nuovo le sale con nuovi linguaggi.
L’incontro è per me l’occasione di verifica, di chiarezza, di evidenza del linguaggio artistico. L’artista deve assumersi la responsabilità di sapere a che punto è il suo percorso e se è il momento del confronto. È lui il primo che non deve vivere l’incontro come un’implicita consuetudine bensì come una eventuale propria necessità.
Se la percezione è quella di obbligo al confronto e all’apertura, rischia di verificarsi una contorsione del sistema.
L’apertura e il confronto devono essere determinati, con sincerità, dal dialogo tra l’ospitante e l’ospite.

Marco Valerio Amico, STRATAGEMMI - prospettive teatrali n. 37 / Guardando i processi creativi