15/06/2010 - Matteo Antonaci, Teatro E Critica
Due stanze adiacenti e misteriose. Figure inquietanti che emergono dal nulla, lasciano tracce o cancellano continuamente la scena del crimine. Un omicidio.
Teatro e Critica interroga il Gruppo Nanou sul magma creativo del progetto Motel – Faccende Personali. Un’intervista per affondare nella poetica di quello che osiamo definire uno dei più belli ed intensi debutti di questa prima parte del 2010.
Come nasce Motel – Faccende Personali? Qual è l’ipotesi drammaturgica che sta alla base del progetto?
Marco Valerio Amico: Cosa succede quando poni un corpo accanto ad un mobile? Motel – Faccende Personali nasce da questa domanda. Se all’interno di uno spazio, costruito con oggetti reali prelevati dalla quotidianità, inseriamo un corpo, creiamo immediatamente un potenziale racconto. Allo stesso modo, affiancando un uomo e una donna diamo vita a potenziali relazioni. In Motel – Prima Stanza lasciamo questa potenzialità narrativa all’esterno della scena teatrale. Presentiamo al pubblico le macerie di un racconto che si susseguono e incatenano ma non costruiscono una trama. Così, i personaggi si rivolgono sempre a qualcosa che accade altrove, al di là dello spazio scenico.
La Seconda Stanza, invece, ruota intorno ad un avvenimento implicito che non viene mai svelato e che il pubblico può percepire solo attraverso la forte tensione che caratterizza lo spettacolo. La stessa idea di omicidio si traduce in una tensione relazionale, tra personaggi e oggetti, che sfoga in violenza, travalica il racconto e ribalta tutte le prospettive. C’è un uomo che ammazza una donna o viceversa?
Possiamo considerare le due stanze di Motel una finestra che si apre su una nuova dimensione?
M.V.A.: Cerchiamo di creare una sorta di “finestra sul cortile”. L’idea scenica, e di conseguenza l’idea di scrittura performativa del corpo, è di aprire la porta immaginaria di una stanza di motel allo sguardo dello spettatore, ma sempre nel momento sbagliato. Gli oggetti scenici possono addirittura ostacolare la visione. Ad esempio il divano rosso, con cui arrediamo la Seconda Stanza, occulta una parte della scena, così come, nella Prima Stanza, il tavolo nasconde i performer che spariscono al suo interno.
E’ possibile affermare che i performer di Motel cerchino di difendere e occultare il loro territorio?
M.V.A.: Per mettere in scena un’intimità bisognava creare una distanza. Abbiamo allontanato l’azione per dare al pubblico la sensazione di entrare nell’intimità di qualcuno che non vuole essere visto. Esattamente come quando, dal balcone di casa, capita di vedere il vicino che mangia o guarda la televisione. In questo caso manca l’attitudine ad una prestazione visiva.
Qual è la funzione dei personaggi secondari che abitano le due stanze?
M.V.A.: I personaggi secondari che emergono nelle due stanze di Motel sono “i padroni di casa”. Questi personaggi ospitano l’uomo e la donna che abitano le due stanze, anche se con loro non hanno nessuna relazione diretta. Facciamo un esempio: il cameriere della Seconda Stanza (nella Seconda Stanza di Motel un cameriere entra in scena e raccoglie o aggiusta gli oggetti spostati dai movimenti dei protagonisti n.d.r) azzera ripetutamente la scena per prepararla ai prossimi ospiti; quindi cancella delle prove. Questo gesto, reiterato, fa in modo che non possa essere determinato il momento esatto in cui è accaduto l’omicidio. Non è possibile determinare il tempo in cui i due protagonisti si sono incontrati per compiere le loro azioni; la quotidianità affrontata dall’uomo e la donna è sempre uguale a se stessa, l’omicidio può essere compiuto continuamente.
Come avete lavorato sui movimenti corporei che caratterizzano la Prima e la Seconda Stanza?
M.V.A.: Nella Prima Stanza di Motel non accade nulla, perché tutto accade all’esterno. I performer sono in una continua attesa e il loro corpo si protende verso un altrove, cerca una relazione esterna, attende e osserva un probabile terzo ospite che non arriverà mai.
Nella Seconda Stanza, invece, c’è una situazione che deve esaurirsi nella camera di motel stessa. La relazione tra l’uomo e la donna non protende verso l’esterno ma si conclude nella loro interazione.
Le tensioni presenti nella Prima Stanza sono assorbite dalla seconda per essere riversate aggressivamente verso l’altro o verso gli oggetti.
In Motel, e in maniera particolare nei movimenti di Rhuena Bracci, c’è una forte femminilità.Come avete lavorato su questo elemento?
Rhuena Bracci: L‘idea di femminilità, in Motel, nasce dalle immagini pittoriche e fotografiche che abbiamo analizzato durante la prima fase di progettazione. Ci siamo soffermati, ad esempio, sui quadri di Hopper nei quali c’è una femminilità spiccata e delicata, caratteristica degli anni 40 e 50. E’ stato questo immaginario a influenzare il tipo di abbigliamento e di movimento utilizzato nello spettacolo. Sottovesti e pizzi, in fondo, sono emblemi femminili per eccellenza dai quali scaturisce un determinato tipo di movimento. Un tacco anni 50 influenza inevitabilmente le possibilità di azione.
Abbiamo affrontato sempre il tema dell’erotismo a partire dal nostro primo spettacolo, Namoro. Il fatto che Io e Marco siamo una coppia è significativo, non è un caso se lavoriamo su questo tipo di relazione. In Motel sentivamo la necessità di distinguere nettamente il maschile dal femminile attraverso i nostri differenti movimenti. Per Marco abbiamo cercato di eliminare tutte le azioni tendenti all’astrazione attraverso le quali rischiavamo di far percepire un’idea di femminilità. Allo stesso tempo eliminare queste azioni dal suo repertorio significava accentuare le mie possibilità di esprimere il femminile.
Abbiamo caratterizzato i nostri movimenti ispirandoci agli stereotipi delle relazioni amorose degli anni 50 e quindi accentuando la distinzione tra i sessi.
Com’è avvenuta la scelta dell’arredamento delle due differenti stanze?
M.V.A.: Per la Prima Stanza ci siamo ispirati al cinema muto. La luce intermittente cerca di simulare l’andamento ritmico della pellicola invecchiata. Abbiamo cercato di riprodurre il “bianco e nero” dal vivo azzerando le tinte e recuperando il ritmo che appartiene a questa specifica cinematografia.
Per la Seconda Stanza di Motel, invece, abbiamo trovato ispirazione nell’immaginario del noir che permea la letteratura degli anni 50.
Ma l’arredamento si relaziona anche ai personaggi dello spettacolo: alla fine della Prima Stanza il pubblico vede emergere sullo sfondo la figura di una donna senza testa che indossa un abito rosso. Questo colore caratterizzerà la Seconda Stanza.
Allora, i personaggi secondari non sono solo i “padroni di casa” ma divengono essi stessi “la casa”. LaSeconda Stanza si crea intorno alla figura con la quale si conclude la prima.
Che funzione ha il suono all’interno di Motel – Faccende Personali?
M.V.A.: La composizione sonora è nata in continuo dialogo con gli altri elementi che compongono lo spettacolo. Non esiste un elemento che sia subordinato agli altri. Anche Roberto Rettura è un performer come lo siamo io e Rhuena: il suo lavoro avviene in tempo reale sulla presa diretta, sull’amplificazione e il processamento di tutti i rumori/suoni prodotti dai corpi in scena. Roberto, attraverso il suono, tenta di suggerire, spostare, ingigantire, offrire un valore esponenziale all’accaduto.
Molti assimilano l’estetica di Motel a quella del cineasta David Lynch. Cosa ne pensate?
M.V.A.: In Motel, come nei film di David Lynch, c’è un percorso di entrata onirica che avviene attraverso la visione. La visione diviene empatia. Però i film di Lynch hanno un percorso artistico molto differente e distante da Motel. Il punto di riferimento del nostro spettacolo non è David Lynch, nonostante amiamo molto questo artista. Ci siamo riferiti ad elementi iconografici, pittorici e cinematografici storicamente precedenti all’attività del regista. Ad esempio ai film noir americani anni 40 e 50, ai film di Hitchcock, al surrealismo francese, alla Nouvelle Vague, oppure, allontanandoci dall’orizzonte cinematografico, ai quadri di Hopper e alle fotografie di Gregory Crewdson. Un immaginario riscontrabile anche nel cinema di Lynch, ma che, nonostante tutto, non lo avvicina al nostro lavoro. Certo, a noi fa molto piacere questo confronto ma sicuramente non stiamo facendo un lavoro di riscrittura di un altro artista.
Avete trovato dei riferimenti estetici anche nella storia del teatro?
M.V.A.: Dagli anni 90 in poi ci sono stati dei cambiamenti rispetto alle modalità di creazione di una drammaturgia. Si è aperta la possibilità di creare drammaturgie senza avere niente a che fare con la trama o con un testo. La danza ci permette di lavorare con degli elementi astratti. Ma il corpo, lungi dall’essere il protagonista della scena, si inserisce all’interno di un paesaggio, sceglie di svanire a discapito di altro e scardina i topos della danza stessa. E’ per questo che siamo molto interessati al lavoro dei Pathosformel. Questo gruppo discute da tempo la presenza e la figura del corpo sulla scena. Allo stesso modo si può riflettere molto sul bunraku. I personaggi che reputo più interessanti, in questo contesto, sono i marionettisti vestiti di nero che non devono essere visti. Basti pensare alla meravigliosa ripresa di uno spettacolo di bunraku all’inizio del film Dolls di Takeshi Kitano: dietro le marionette, dietro gli oggetti, ci sono dei danzatori che abbandonano un ego, per mettersi al servizio di qualcos‘altro.
Quindi, se ci sono dei riferimenti teatrali nel nostro spettacolo, si posso individuare in quella parte di danza contemporanea in cui la scrittura corporea sceglie di subordinarsi alla creazione di un paesaggio e di non soffermarsi sull’estetica atletica del corpo.
Come verrà terminato il progetto Motel?
M.V.A.: Stiamo ragionando sulla Terza Stanza, spettacolo con il quale si chiuderà il progetto. Probabilmente quest’ultima tappa sarà più astratta per contrapporsi alla figuratività dei primi due episodi di Motel. Tentiamo di creare una nuova via drammatica rispetto al percorso già intrapreso. Ogni stanza non ha con le altre una relazione diretta, storiografica o narrativa ma è assolutamente indipendente. Allo stesso tempo permane la possibilità di unire i tre differenti lavori e di lasciare che l‘opera venga letta in maniera nuova trovando una completezza imprevista.