06/08/2009 - Lorenzo Donati, Ravenna&Dintorni
Nel panorama nazionale delle arti sceniche, Ravenna è un caso unico. In città, infatti, vivono e lavorano numerose compagnie di teatro e danza, spesso riconosciute a livello nazionale e non solo. È necessario dunque un certo salutare nomadismo per vedere i debutti dei nostri gruppi, lungo geografie festivaliere sempre meno segnate dall’idea di “centralità”. In Trentino, per la precisione al prezioso festival di Dro, abbiamo visto l’ultimo lavoro del gruppo nanou, formazione che sosta sui confini fra teatro e danza. I loro spettacoli disegnano uno spazio abitato dai corpi, quelli di Rhuena Bracci e di Marco Valerio Amico, ma non negano l’emergere di una parola non lineare, che insieme alla ricerca sonora di Roberto Rettura acuisce la percezione di una scena che sfugge.
Bisogna dunque mettersi in una condizione attiva, ascoltare i movimenti e vedere i suoni, perché la scena sembra un enigma, una temporanea coincidenza di figure che la mente è chiamata a trattenere. Motel studia la relazione fra un uomo, una donna e il tavolo del loro salotto, una sorta di varco “attraverso lo specchio” che genera scenari non quotidiani. Fin dall’inizio sembra di assistere a sequenze cinematografiche in rewind: cadute e sprofondamenti come se al suolo vi fosse un buco nero che attrae ogni fonte di energia, il tappeto che viene risucchiato dalla mobilia, l’uomo che s’infila sotto la tavola ma ne esce la donna. Qualche “situazione”, tuttavia, si concede: lui seduto e lei seminuda distesa come dopo una violenza, entrambi sul tappeto a guardare l’orizzonte col suono dei gabbiani, o seduti al tavolo l’uno di fronte all’altra in attesa di un evento. La stanza del motel ci era stata introdotta da una figura con la tuba in testa, che svolgeva un rullo con frasi a noi destinate («tutto questo è stato preparato per te, ricordati di me»), mentre una donna rossa compariva dietro a un fondale bianco. Le “faccende personali” del sottotitolo sembrano richiamare un’intrusione, e infatti ci proiettano in un privato che non possiamo (forse non dobbiamo) del tutto decifrare. Il suono resta fra le poche apparenze riconducibili a dati mimetici (carta che viene stropicciata, il brusio di una radio, stoviglie di un locale), in una scena che punta all’evocazione di un “colore” spostando la soluzione, dilazionando e polverizzando l’accadimento per lasciarne residui nell’aria. Si tratta della “prima stanza” di un progetto che ne comprenderà altre due, quindi una sorta di anticamera, che sollecita la proiezione futura e l’analisi presente, richiamate soprattutto dalle enigmatiche figure che compaiono per istanti. È come se guardassimo attraverso un cubo di ghiaccio: la prospettiva si slabbra pur nel nitore della superficie e nella mente resta una percezione dilatata e ondivaga, che però non riesce a intravedere i contorni della realtà oltre il cubo e si ferma con la fame di condividere il gorgo di ossessioni di quella stanza del Motel.