[…] Con gruppo nanou ci spostiamo sull’altra costa, a Ravenna Festival. We Want Miles, in a silent way, firmato da Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci, Marco Maretti, coreografie di Amico e Bracci, con i suoni di Roberto Rettura e le percussioni di Bruno Dorella, siamo in un’operazione che ha già visto il debutto nel mitico spazio La MaMa di New York, e che riappare in nuova più ampia versione qui con Carolina Amoretti, Rhuena Bracci, Marco Maretti, Chiara Montalbani, danzatori di presenza energica e carismatica, tra le scene e i colori di Amico e Daniele Torcellini e il light design ancora di Amico con l’aggiunta dell’immaginazione luministica felicissima di Fabio Sajiz.
Le scatole cinesi qui sono estrarre dalla musica di Miles Davis strutture di incontri tra cellule e elementi sonori diversi, nei suoi standard rimessi in vita dall’improvvisazione, dai timbri, dalle dinamiche e dai colori strumentali, e farne elementi per la danza, tre corpi femminili che si muovono in assolo, in duo, in trio, si intrecciano, si contraggono e si distendono, si rispecchiano in un’altra figura, maschile, che spesso entra e guarda immobile, per poi trovare l’onda del movimento tra schizzi di luce che la rendono fosforescente, pop, mentre in scena compaiono ombre come doppi, riverberi dei corpi in movimento.
Il palco ha un riquadro sul fondo che viene fortemente colorato, in atmosfere spesso in contrasto con un altro colore che allaga o disegna geometricamente il palcoscenico, in effetti cromatici emotivi che rievocano Rothko, un astrattismo primordiale in cui il rosso a volte si inscurisce in colorature metalliche che oscurano la visione, per poi meglio far risaltare verdolini acidi o scialbi che accolgono i corpi o azzurri fondi e elettrici che li celano come deiezioni, come macerie in trasformazione e movimento in un angolo, in una porzione ristretta di spazio, pronti all’esplosione.
We want Miles, in a silent way – © Daniele Casadio – Dancers: Carolina Amoretti, Chiara Montalbani
Miles Davis è sottratto, diventa pura ispirazione strutturale: la musica è ricomposta per percussioni, cui a poco a poco la regia live electronics aggiunge altri strumenti, soprattutto di base ritmica, fino a un irrompere, solo alla fine, della tromba, come una citazione, come un omaggio che rende l’atmosfera, concettuale e fisicissima allo stesso tempo, romantica, prima del precipizio nel buio.
Nello spettacolo si combinano corpi, suoni, strutture, spazio che diventa disegno mentale e colori che opacizzano o fanno risaltare i corpi, in un lavoro sperimentale che incarna la vocazione di questa compagnia a esplorare per via mentale i paesaggi della danza, inventando, ricreando ritualità in cui il corpo alla fine risulta il vero sovrano, determinato e determinante, qui con il controcanto fondamentale delle atmosfere di luce. Si ripete un po’ troppo forse lo sviluppo degli intrecci dei corpi; non riesce a raggiungere la sospensione metafisica e sognante della musica di Davis, il suo scavo interiore, pur toccandone la fisicità. La memoria della libertà delle note vince sulle iterazioni delle figure coreutiche, innervate drammaturgicamente soprattutto dallo sviluppo della posizione dell’uomo che dall’immobilità statuaria inziale conquista, tra buio ombra e luce, un’espansione, come un motivo conduttore tenuto a lungo in secondo piano e poi portato a dilagante consapevolezza.
Si tratta comunque di un affascinante studio, che potrebbe musicalmente e coreograficamente trovare altri, più concentrati o inventati, sviluppi.