07/11/2010 - Gianni Manzella, Il Manifesto
Qual è lo spazio della creazione teatrale nell’epoca di Lady Gaga, può essere un fastidioso tarlo di stagione, per chi osserva che dai palcoscenici ufficiali, pubblici o assimilati, vengono scarsi segni di vita teatrale. E tocca ancora ai festival dell’autunno riempire il vuoto. Mentre continua a Torino la seconda Prospettiva, sono partiti l’ormai storico Natura dèi Teatri a Parma e il festival di Pontedera e si attende la seconda parte delle romane Vie dei festival. Qui si confrontano le esperienze più giovani e innovative con la scena internazionale. Ecco accostarsi ad esempio, in una bella serata al teatro Era, una delle più promettenti formazioni dell’ultima generazione, il gruppo nanou, impegnato nelle prime due tappe di una trilogia che dovrebbe giungere a conclusione l’estate prossima, e la coreografa e danzatrice fiamminga Lisbeth Gruwez, guerriera della bellezza cara a Jan Fabre.
(Non è forse difficile trovare una ragione di ciò. Curare un festival richiede curiosità, voglia di guradare fuori, muoversi dalle care poltrone. Mentre i direttori dei teatroni sembrano piuttosto stilare i programmi per telefono, ce ne sono alcuni che mai abbiamo visto frequentare un festival o un teatro).
Togliere al racconto l’azione, sembra l’intenzione da cui parte Motel [faccende personali] del gruppo nanou. La prima stanza si apre in una baluginante luce crepuscolare che a stento rischiara uno spazio spoglio, essenziale nell’uniforme grigiore. Un tavolo con due sedie ai lati, un tappeto steso lì davanti. La coppia che l’abita si muove per passi lineari, nelle fratture temporali determinate dai frequenti momenti di buio. Spesso rifugiandosi sotto quel tavolo che possiede una evidente forza magnetica, fino a illuminarsi di luce propria come un oggetto fantascientifico «non identificato». Un silenzioso rumore di fondo, dove pare di percepire l’eco di una quotidianità, fa da ossessivo basso continuo. Un improvviso taglio di luce illumina il dettaglio di un corpo messo a nudo. Potrebbe facilmente ricordare, all’inizio, un tratto della Tragedia endogonidia di Romeo Castellucci e soci, padri o maestri certo non estranei alla fomazione dell’ensembre di Ravenna. Ma si capisce anche che i due artefici, Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, vanno per una loro strada. Dove semmai incontrano il mondo immobile di Edward Hopper, il tempo senza gesto dei dipinti dell’artista americano. Quella solitudine, quel senso di attesa privo di oggetto.
Il crescendo sonoro del finale, un presagio di rosso che si incarna nella figura apparsa in trasparenza sul fondale, anticipa il passaggio alla seconda stanza. Qui tutto si è fatto più pieno, in qualche modo più spettacolare. Ci stanno un divano visto di schiena e poltrone rosse attorno a un tavolino, su cui incombe una lampada ad arco.
Di uno spazio ambiguo comunque si tratta, ripetutamente terremotato. Che partecipa dell’anonimato di un non-luogo quanto dell’intimità di uno spazio vissuto, non a caso il titolo rimanda all’albergo di una notte, luogo di transito per definizione. E che sembra di spiare dal di fuori, nella luce intermittente di un faro, come solo da uno specchio possiamo indovinare i movimenti della donna che si contorce sul divano. Più violenti diventano progressivamente anche i gesti della coppia, forse la stessa di prima o no, chi può dirlo, sono figure metamorfiche quelle che vi appaiono, che fingono per noi una quotidianità ricostruita teatralmente come nelle immagini di Gregory Crewdson. […]