15/05/2010 - Andrea Pocosgnich, Teatro e Critica
Era quasi completa la platea ieri sera per lo spettacolo inaugurale di Teatri di Vetro 2010, il primo sul palco del Palladium dopo la performance Painting Tango giocata nel Foyer invece che nel piazzale per colpa di una fitta pioggia, insomma una platea colma di aspettative, alcune generate da un “feeling” più o meno modaiolo, ovvero il Gruppo Nanou è una di quelle compagnie rappresentative di un certo modo di far teatro, una dei simboli di quel paradigma, del quale già più volte abbiamo accennato, che vede una sorta di linea gotica a dividere la geografia estetica del nuovo teatro italiano. E allora nel “ricco”nord ecco lo svilupparsi di pratiche sceniche che si fondando sulla visione, produzioni che indubbiamente necessitano di un sostegno (non solo economico) costante. Ed è qui che Teatri di Vetro ci porta una piacevole sorpresa, utile soprattutto per iniziare a valicare quella linea gotica: nella produzione della seconda stanza di Motel troviamo la collaborazione della nostrana Ztl_Pro.
Altre aspettative poi tra il pubblico si sono create anche a causa della visione della prima parte del lavoro all’Auditorium durante il festival Vertigine. Ed è naturale che assistendo alla prima “stanza” di questa trilogia si cerchi di andare fino in fondo, di arrivare a quel punto nel quale riusciremo come spettatori a ricostruire almeno quello che sarà un nostro personale percorso mentale. E quando arriverà la terza e ultima parte del lavoro sono sicuro che in platea ci saranno anche coloro che al primo impatto sono rimasti lontani dal linguaggio di Nanou, quelli che non sono riusciti ad andare oltre l’emblematica frase “sì sono bravissimi, ma non mi è arrivato nulla” e vi assicuro che anche tra il pubblico quella linea gotica ha creato un solco ben profondo.
E’ proprio da qui che dobbiamo partire per analizzare e valutare un’ opera come quella del giovane gruppo ravennate (autori e performer: Marco Valerio Amico e Rhuena Bacci), dal movimento tellurico che ha creato tra gli spettatori, tra quelli che al termine della seconda stanza urlavano “bravi” e quelli che accennavano solo a un più timido applauso. Partiamo da qui proprio perché Motel sembra innescare un meccanismo che lavora a più livelli nello spettatore, ma tutto nasce dal piano visivo: la connotazione esteriore data da questa stanza d’albergo composta da un tavolo due sedie, un tappeto e una gabbia per uccelli, tutto portato ad un livello cromatico e dunque emozionale prossimo al gelo nella prima parte e poi lo stacco visivo dato dalla seconda dove entra con forza nel gelo della scena il rosso, simbolo e anticipazione di un probabile violenza, di un imminente spargimento di sangue, ma anche connotazione estetica a sé, segno pittorico dalla forza espressiva inaudita, una seconda stanza dove le cose si complicano e rincorrono maggiormente anche a livello visivo, nel quadro entra un divano, un tavolino a specchio, un separé che all’occorrenza diventa triplice specchio mostrando quello che il divano, essendo di spalle al pubblico, normalmente nasconde. Poi ci sono i corpi dei performer, materiale semovente di questo quadro, esteriorità performativa generatrice e dissolutrice di senso.
Ma questo livello puramente iconico sarebbe inutile se non generasse quell’intreccio di significati e interrogativi che lavorano nell’inconscio dello spettatore, quella capacità insomma di lavorare sotto pelle anche a rappresentazione conclusa, quella forza di mettere in atto meccanismi critici tipica di certo cinema surrealista o delle più recenti esperienze cinematografiche di autori come David Lynch. Ecco allora un uomo e una donna di cui non sappiamo nulla, della loro relazione prova a parlarci il movimento dei loro corpi, il loro sparire sotto il tavolo, quel cadere aldilà della nostra visione senza rumore, il nascondersi e il riapparire ingannando la nostra razionalità smontando le nostre logiche quotidiane, e poi l’uomo col cilindro (Alessandro Cafiso), lui si muove nel buio, una sorta di custode di questo mondo sotterraneo, costui “parla” al pubblico girando la semplice manovella che fa scorrere su di una lavagna il testo, le parole scritte si rivolgono direttamente allo spettatore, gli chiedono un coinvolgimento, tra le righe lo preparano allo spaesamento di cui saranno protagoniste le sue certezze.
E’ stando a questo gioco (non solo abbandonandosi all’empatia o all’appezzamento di un’estetica visiva e un lavoro sui corpi comunque di altissimo livello) che si apprezza l’opera del Gruppo Nanou, bisogna stare al gioco e farsi condizionare da certi interrogativi, andare a sondare la relazione che c’è tra i due personaggi, ricucire il loro rapporto, reinventare il non detto, colmare il silenzio della prima “stanza” e metterlo in relazione con l’esplosione di violenza protagonista della seconda parte, porsi insomma domande anche sapendo che la risposta non sarà nella razionalità di una logica catena di eventi, ma nell’ironica e inquietante immagine del nostro inconscio che balla sul ritmico e assordante rumore della morte.