Nell’ambito della preziosa stagione di teatro contemporaneo del Teatro Diego Fabbri di Forlì, siamo stati testimoni di “John Doe” di gruppo nanou. Alcune brevi note. E una spinosa domanda finale.

“John Doe è un nome usato solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare una persona la cui identità è sconosciuta, come nel caso del ritrovamento di un cadavere non identificato fino al momento del suo riconoscimento. Facciamo riferimento alla figura di John Doe, un concetto di assenza di identità, applicato al corpo, alla costruzione coreografica, alle luci e agli eventi narrativi”: Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci chiariscono il senso del titolo del loro ultimo lavoro, primo movimento di una trilogia in divenire. “Al centro della scena troneggia una poltrona rossa vintage, le luci sono basse e filtrano da una tenda a frange”, aggiungono i fondatori del ravennate gruppo nanou. “Come osservando una fotografia, possiamo solo immaginare cosa è successo e cosa accadrà ai personaggi che appaiono per pochi istanti. È una traccia, un’evidenza. Traccia come eco, riverbero, fantasma che appartiene al luogo in cui viene trovata”.

A proposito di fantasmi e del rapporto fra immagine e pensiero che da sempre caratterizza il lavoro dell’ensemble: nel 1735 Alexander Baumgarten, in un suo breve trattato pre-Aesthetica, ragiona sulle idee, distinguendole tra noetà (quelle “pensate”) e aisthetà (quelle “sentite”), a loro volta suddivise in sensualia (le sensazioni percepite col corpo, qui e ora) e phantasmata (le “sensazioni assenti”, di cui resta traccia nella memoria o che sono prodotte dall’immaginazione). È proprio lì, nella fessura tra sensualia e phantasmata (tra il qui e l’altrove, potremmo dire), che si collocano le evanescenti, smarginanti figure di John Doe. “Corpi tesi oltre la danza”, appunto.

La questione dell’inevitabilità del corpo: in una scena dominata da una grande lampada che diffonde una tremolante luce rossa e da un tracimante tappeto sonoro, quattro danzatrici reiterano angolose coreografie, giustapposte a una selva di spersonalizzanti, frenetiche entrate e uscite di scena. A parte la (già conosciuta) compatta presenza scenica di Rhuena Bracci, la sorpresa più gradita è il respiro europeo dell’arte coreutica di Anna Marocco. Le Figure mostrano con evidenza un pervicace impegno a celare il sembiante (ponendosi in controluce, o di spalle, o con i capelli davanti al viso, o grazie a una quantità di algide contorsioni). Come si sa, il volto è comunemente considerato l’elemento centrale dell’espressione umana, è ciò che muta l’uomo (o la donna) in personae. Cancellare il viso, dunque, manifesta l’intenzione di eliminare dal corpo l’impronta dell’individuo, la sua haecceitas. È un gesto, si potrebbe dire parafrasando Luce Irigaray, che avvicina allontanando, spiritualizza incarnando, individualizza universalizzando.

Questi apparenti paradossi sintetizzano esattamente la più stringente questione suscitata da John Doe: in luogo di questo insistito occultamento, ci si potrebbe “nascondere” attraverso la massima esposizione? Detto altrimenti: non è insita nell’ostinato celarsi una volontà di affermazione? In un milieu affatto diverso, vien da pensare a Franco Battiato: “Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.

John Doe

John Doe - © Federico Fiori, Francesca Lenzi - Dancers: Sissj Bassani, Alessia Berardi

24/03/2015 - Michele Pascarella, Artribune