Paradiso - ph. Daniele Casadio, Dancers: Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Andrea Dionisi
Ruotano sul loro asse. Eseguono rivoluzioni attorno a un centro che si sposta, i cerchi divengono ellissi, le circonferenze sispezzano e poi tornano in traiettoria. Sondano l’influenza della presenza propria e altrui, si ag- gregano in duetti, sono a terra carponi e circoscrivono lo spazio, avanzano e retrocedono, tastano il terreno, si alzano e torcono il tronco. Tornano con le mani a terra, slanciando un solo arto inferiore che si eleva come il braccio di una gru. Un refolo sonoro accompagna l’ondeggiare sinuoso diun corpo che diviene foglia, piuma, pulviscolo rarefatto appena visibile in controluce.
Paradiso di gruppo nanou è stato ospitato alle Artificerie Almagià di Ra- venna per una lunga tenitura (dal 17 giugno al 2 luglio 2022, tutti i giorni per oltre quattro ore al giorno), uno spettacolo prodotto e programmato da Ravenna Festival. L’ex magazzino delle Zolfo, restaurato negli scorsi decenni e ora spazio per eventi dal vivo, ha una pianta basilicale con tre navate resa praticabile in tutta la sua estensione, calpestata dagli spettatori e dagli otto danzatori e danzatrici (suddivisi in due cast chesi alternano nelle due aperture giornaliere). Alfredo Pirri firma un ambiente dal suolo riflettente, a terra due tappeti dorati s’intersecano in una croce, alle estremità due tendaggi rettan- golari sono appesi e digradano al suolo, al centro giacciono delle sfere semi-trasparenti. Il carminio, il blu, l’ocra bagnano le pareti e le colonne, il soffitto rilancia luce dal pavimentospecchiante, in una teoria di rifrazioni che sfonda lo spazio sfavillando negli strass dei danzatori, negli shorts che brillano, nelle t-shirts retate a maglie finissime, nei brillantini dei corpi, nei veli che coprono i volti.
Il senso dell’orientamento qui gira a vuoto, proprio come nella cantica dantesca, dove l’umano può solo imperfettamente tradurre le visioni di un altro mondo. Gruppo nanou ci induce a indossare gli occhi di Beatrice, sfida altissima e immediata per sperimentare una percezione che dismette l’umana razionalità e ci invita a camminare, noi spettatori e spettatrici, al fianco di Dante, che qui appare in accappatoio rosso e occhiali da nuotatore, osserva circospetto e avanza a micropassetti, tradendo una natura differente anche nel vestiario, incapace come è di trasumanar.
Una danzatrice entra quasi irrigidita, accennando passi di ginnastica rit- mica. Una gamba si fa perno per molleggiamenti, le giunture sembrano sul punto di articolarsi al contrario. Un duo si scioglie poco dopo essersi creato e una figura scivola a terrausando l’anca come appoggio, nel frattempo monta- no in lontananza degli ineffabili tonfi elettronici, composti da BrunoDorella. Siamo dentro lo spazio da più di un’ora, a tratti ci abbandoniamo contro una parete, chiudiamo gli occhi, qualcuno si sdraia, improvvisamente una spetta- trice si alza e si approssima ai danzatori, dietro di noi scorgiamo un’ombra, è un danzatore solitario che si cela dietro un arco. Nel testo dantesco Beatrice avvisa Dante, corregge le sue interpretazioni troppo a misura d’uomo, tradu- ce per lui. Come la lingua di Dante cerca un’esattezza per esprimere ciò che l’umano intelletto non potrebbe, qui siamo dentro a visioni pluriprospetti- che, avvolti da immagini sonore che colorano il nostro percepire, a tratti lo immalinconiscono, quasi sempre lo rapiscono senza mai saturarlo. Restiamo avvinti da cromie mutevoli. Se è vera la nostraipotesi sul farci Beatrice, allora dobbiamo capire come praticare la soglia fra abbandono e tensione interpre- tativa,“sperimetrando” lo sguardo, diluendolo in una prospettiva non assiale, contro una «egemonia dello spettatore» (Giacchè, 2004, p.115) ancora erede di quell’occhio del principe rinascimentale, assestatosi nella visione frontale del teatro all’italiana. Al netto delle diverse rivoluzioni dello spazio del teatro nel Novecento, tenendo conto dello spazio come elemento drammaturgico capace di rigenerarsi in luogo (nel rapporto fra teatro città, cfr. Guarino, 2008), ci sembra che l’idea spaziale di Paradiso apra la stradaa una comunità allargata di cittadini e artisti, in ascolto degli anni pandemici che abbiamo vissuto. La ritualità teatrale divienequi un’esperienza multifocale e pluridisciplinare dove si può osservare, dialogare (durante la performance), chiedere un aperitivo, uscire a fumare, rientrare, guardare distrattamente, financo addormentarsi. Si contesta, dunque, l’egemonia di unospettatore seduto che guarda e ascolta in silenzio o che al massimo “risponde” dentro a binari prestabiliti (dentro alle griglie dipiattaforme e chat?), uno spettatore previsto dal sistema teatrale all’italiana ma anche dal web 2.0.
Quello che Paradiso prefigura sembra essere uno “spettatore post-pandemico”: elevando a procedimento operativo il qui ed ora che fonda la teatralità, questo esito spettacolare si distanzia in modo peculiare dalla replicabilità. Marco Valerio Amico (autore del lavoro con la compagna Rhuena Bracci) ci racconta che il tracciato coreografico è stato originato dalla messa in opera di alcuni pattern di movimento che chi danza è chiamato a «riscrivere sul mo- mento», dunque una via di mezzo fra partitura e improvvisazione. A partire da queste e da alcune indicazioni spaziali, provate in sala durante i lockdown,
quando le restrizioni limitavano il raggruppamento delle persone, ogni dan- zatore individua un proprio «territorio» che reagisce con quello di un altro, e così via. È qui possibile solo un accenno ai lavori precedenti del gruppo, alla fabbricazione diun metodo in tensione fra partitura e aleatorietà sperimentata anche come nuova didattica nel progetto Alphabet (2017). Oltre aglispettacoli su palco, il gruppo ha lavorato alla creazione di paesaggi performativi che lo spettatore doveva attraversare, abbandonandosi alle visioni o decrittandone le simbologie, fra tutti Strettamente confidenziale 2013/2016 (cfr. Conti, Gio- vannelli, Serrazanetti, 2018; Donati, 2016). Letti alla luce di un percorso quasi ventennale, gli spettacoli del gruppo si configurano oggi non come prodotti finiti ma come esiti parziali di una processualità aperta. Tornando a Paradiso, chi guarda osserva schegge di corpi celesti cadenti, mulinelli di braccia che scompaiono e ricompaiono dietro le architetture, silhouettes concave attirate da magneti invisibili. Vediamo figure che disegnano dissolvenze circolari, ri- camate nell’aria. E qui è chiaro come l’incedere ecfrastico non basti per dire quanto accade nello spazio tempo, anche perché il qui ed ora di nanou non produce alcuna impressione di “tempo reale”, di “liveness” (Auslander, 1999), anzi sembra necessitare di una percezione senza centro. Se vogliamo essere presenti nel presente dei corpi, delle percezioni e delle emozioni, dobbiamo mettere il nostro io di lato e accogliere una moltitudine. Come sappiamo, nessuno spettatore vede lo stesso spettacolo di un altro. Tale assunto qui si fa principio compositivo e modello per ogni sintagma di fruizione, così la danza e il teatro tornano capaci di «organizzare ilrapporto tra gli individui, e fra essi e la realtà che li circonda» (Pontremoli, 2006: IX). Osservandoci, noi spet- tatori, a lato delle figure beate che disegnano l’aria, siamo spinti a ragionare sulle ipotesi di collettività che dovremmo ricostruire, dopo esserci ritrovati chiusi per diversi mesi, dopo esserci crogiolati in connessioni che surrogavano il contatto dei corpi, recuperata un’“egemonia” di scroll e click dietro agli schermi. Akropolis di Jerzy Grotowski (1962 e versioni successive) è uno degli spettacoli che hanno inaugurato l’idea stessa di “laboratorio”: nel tentativo di dire l’orrore della Shoah, il racconto procedeva per via gestuale prevedendo un mescolamento spaziale fra gli spettatori e gli attori, che agivano in diver- si punti dislocati nello spazio, con l’obiettivo di tramutare l’esperienza dello sguardo in testimonianza. Ma la testimonianza, allora come oggi, necessita di un rispecchiamento che deve avvalersi anche della distanza, contestando quanto è imposto dalla consuetudini architettoniche.1 In Paradiso, dunque,
ci viene ricordato che nella collettività noi non siamo esattamente al centro, anzi questo “noi” è faticoso, ce lo dobbiamo guadagnare durante e dopo la rappresentazione, componendo dei pezzi isolati di esperienza che possono di- venire memoria collettiva (Halbwachs, 1997). Si tratta di un esperire e di un ricordare complessi, in una traiettoria relazionale autenticamentepolitica che questa danza prefigura.
10/01/2023 - Lorenzo Donati, Dante e l'Arte n.9
Bibliografia
Auslander P. (1999), Liveness. London-New York: Routledge.
Conti L., Giovanelli M., Serrazanetti F. (2019), Il pubblico in danza. Comunità, memo- rie, dispositivi. Milano: Scalpendi.
Donati L. (2016), Al lato della rappresentazione. I Paesaggi performativi di gruppo nanou. Arabeschi n. 6, [http://www.arabeschi.it/al-lato-della-rappresentazione-i-pae- saggi-performativi-di-gruppo-nanou-/] ISSN: 2282-0876
Giacchè P. (2004), L’altra visione dell’altro. Una equazione fra antropologia e teatro.
Napoli: Ancora del Mediterraneo.
Grotowski J. (2007), Il Teatro Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969. Firenze: La casa Usher. Guarino R. (2008), (a cura di), Teatri luoghi città. Roma: Officina Edizioni.
Halbwachs M. (1997), La memoria collettiva. Milano: Unicopli.
Pontremoli A. (2008), La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento. Bari: Laterza.