C’è voglia di mettere in discussione la scatola chiusa della creazione e del prodotto scenico, c’è voglia di aprire le maglie del linguaggio performativo per farci entrare lo sguardo dello spettatore, se non il suo stesso corpo.

redrum - ph. Zani/Casadio
C’è voglia di mettere in discussione la scatola chiusa della creazione e del prodotto scenico, c’è voglia di aprire le maglie del linguaggio performativo per farci entrare lo sguardo dello spettatore, se non il suo stesso corpo. Non si tratta di teatro partecipato, piuttosto di una possibilità di aprire le maglie del discorso scenico e metterne in gioco convenzioni spaziali, temporali e narrative. E allora per trovare il modo di immaginare una fruizione performativa libera e corale le chiese, o ex chiese hanno una loro suggestione e funzionalità. È accaduto a Bassano del Grappa con Bromio, è accaduto ad Hangart Festival a Pesaro con redrum del gruppo nanou nell’ex chiesa delle Maddalene. Quando il pubblico entra i cinque danzatori stanno già muovendosi in uno spazio centrale. Il pubblico può non solo entrare quando vuole, ma può muoversi come vuole, ci sono due punti di osservazione: e già questo sembra destrutturare il concetto stesso di visione della performance. Ad un certo momento c’è chi circumnaviga lo spazio per fare delle foto. C’è la possibilità di bere qualcosa in un punto ristoro. Ma cosa succede? Perché tutto questo? E nel mentre i cinque danzatori compongono quadri coreografici di una essenziale linearità. C’è chi ha appendici animalesche, una coda di volpe o di gatto, chi sembra fuoriuscito da un quadro di Savinio, un telo dorato cade dall’alto, regalando una suggestione bizantina, un interno borghese, due sedie e l’impressione di un luogo in cui si consuma una lunga attesa senza soluzione. I danzatori si spostano, si osservano dal limite della scena, si siedono al fianco degli spettatori. Lo spazio scenico è comune, il tempo dilatato. Redrum da programma dura un’ora e mezza, ma la sua fruizione temporale come quella spaziale è lasciata alla libertà di movimento non solo dei performer, ma anche degli spettatori. Non c’è chiusura e i movimenti e l’agire dei danzatori appaiono in loop, impegnati in un continuum coreografico da cui entrano ed escono, così come il pubblico può entrare e uscire a piacimento. Come non ricordare Einstein on the beach di Bob Wilson che permetteva – su otto ore di durata – la stessa libertà di partecipazione. Redrum che Marco Valerio Amico definisce installazione coreografica è il tentativo di rompere la scatola della performance chiedendo a spettatori e danzatori di abitare lo stesso spazio e vivere lo stesso tempo nel segno di una coralità laica. In tutto questo la scrittura coreografica si compone di una gestualità pulita, elegante, reiterata senza essere ripetitiva. Il linguaggio sostiene la voglia di smontare la scatola all’interno della quale si esprime. Gli applausi costringono i performer a interrompere il flusso e ad accogliere l’abbraccio del pubblico. La scatola e le convenzioni hanno riprese il sopravvento e forse non può che essere così. Per fortuna.