1. Abitare lo spazio coreografico
La danza si fa architettura poiché idea, erige e progetta continuamente luoghi nei luoghi
Marco Valerio Amico
Questo scritto si inserisce nell’ambito delle tematiche di ricerca sul progetto dello spazio scenico, nei casi in cui la creazione ‘astratta’, priva di riferimenti testuali, non si sviluppi in un racconto ma in un percorso introspettivo, attraverso i caratteri di uno spazio rarefatto che non cerca conforto nel luogo, anzi ricorre ad una white box, evitando i condizionamenti derivanti dal site specific.
L’evidenza del processo creativo è un obiettivo nato come risposta al diffuso manierismo che deriva dalla creazione di linguaggi personali costruiti dalle compagnie a favore di spettacoli, piega che non lascia tempo alla ricerca personale. Il pubblico è rivolto sempre meno ai «linguaggi teatrali», per cui la danza contemporanea si rimette in gioco, rivede le proprie regole nello strenuo tentativo di trovare «le sue radici in territori diversi», guardando fuori da sé, «trasformando le esperienze in materia».[1]
La necessità di uno studio che ripieghi su se stesso, di uno spazio scenico ridotto ad una ‘mappa’ che, restando visibile anche a produzione avvenuta renda leggibile allo spettatore il riferimento che ha condizionato l’elaborazione coreografica, ci riporta alle condizioni artistiche in cui il processo si sostituisce al risultato: mostrare l’elaborazione creativa è più importante della performance.
Rudolf Arnheim sostiene che «l’esperienza dell’architettura è legata alla nostra esistenza fisica e al movimento del corpo nello spazio».[2] Gli architetti come i coreografi condividono lo stesso interesse per lo spazio; entrambi cercano di definirlo osservando e progettando il movimento dei corpi che lo abitano. Il temine ‘abitare’ in architettura allude al legame uomo/luogo: assume il significato di «addomesticare lo spazio», restituirlo accogliente, definirlo e renderlo comprensibile e gestibile; l’uomo modifica i caratteri strutturanti dello spazio attraverso i propri schemi interpretativi, costruendo ed affermando, nell’interazione, una appartenenza reciproca, frutto di accumulazione nel tempo.[3]
L’etimo di ‘spazio’ allude ad un luogo ‘disponibile’ per oggetti e corpi, individuati da una collocazione o posizione in esso, dotati di dimensioni e suscettibili di movimento. È proprio il movimento che determina in architettura l’abitare; il ripercorrere quotidianamente delle traiettorie determina flussi che delineano una mappa dell’abitabilità: un programma codificabile di movimenti reiterati, una memoria di posizioni, che verificano la compatibilità dello spazio agli usi per cui è stato progettato. In architettura colui che abita è parte integrante del progetto: è colui che determina lo spazio con una propria idea/esigenza, che lo misura con il proprio corpo, che lo collauda confermandone l’appropriatezza. La sua permanenza nel luogo, il ripetersi di passi, pause e movimenti introduce la dimensione temporale, che restituisce esperienza a chi definisce lo spazio abitandolo e a chi ne osserva l’abitare.
Anche in scenografia – analogamente alla progettazione per gli interni – lo spazio, individuato nella piccola scala con caratteri di reversibilità, sarà abitato in modo temporaneo per consentire i cambi scenici e i movimenti degli attori; in una porzione del palcoscenico, flessibile e attraversabile, saranno concentrate le azioni teatrali reinterpretandone i luoghi in chiave drammaturgica.
Nella composizione coreografica lo spazio scenico è definito in modo virtuale: è il luogo derivato dalla partitura dei movimenti che fornisce allo spettatore le sue coordinate di lettura. Lo spazio coreografico è definito da un sistema di percorsi che il danzatore intraprende e rispetta per verificare l’‘evidenza’ del lavoro e, in fase progettuale, i suoi limiti, le fughe e gli incidenti creativi. Si può leggere una coreografia come uno scavo, un’impronta lasciata dal movimento nello spazio, immaginato di materia flessibile, come un volume modellato dal movimento. A partire dalla propria individualità il performer elabora una stereometria di tale spazio, misurazione che è sintesi tra vissuto, tensione e spazio geometrico tridimensionale, ma anche espressione estrema di potenzialità del corpo contro natura.
La lettura di seguito sviluppata è lontana dagli ambiti della coreutica e della critica d’arte; utilizza categorie spaziali proprie dell’architettura tese ad interpretare lo spazio scenico come ‘spazio del movimento’, fissando le relazioni che le azioni riescono a tessere tra loro e con l’ambiente che le ospita, tracciando con punti, linee e direzioni un luogo che si dissolve nell’attimo dopo essere stato creato.
Alphabet - © margherita masè - Dancer: Carolina Amoretti
2. Interpretare lo ‘spazio del movimento’
Alphabet nasce in un periodo di pausa di nanou, da un’esigenza del gruppo di riflettere su se stesso, di rifondare una propria grammatica in termini coreutici, ripercorrendo il già fatto e distillandone l’essenza, seguendo un processo di de-verbalizzazione ed assenza di artifici spettacolari per dedicarsi al corpo, e alla reinvenzione del suo ruolo, quale motore di una composizione astratta.[4] Gli incontri monografici, che punteggiano il ciclo di tappe residenziali, costituiscono i ‘capitoli’ di Alphabet, un’articolata opera di scavo analitico che indaga i prodromi della ricerca di nanou, consentendo di scrivere una coreografia con il solo scopo di scomporla. Si riconosce in questo approccio l’adozione della logica sistemica come adottata in ambito tecnologico,[5] per consentire la lettura e delineare possibilità di modificazione di prodotti e di processi, riconoscendone le componenti.
Dopo dieci anni l’evoluzione della ricerca poetica ha portato il gruppo ad abbandonare la dimensione narrativa presente nei primi lavori teatrali, dove l’azione era finalizzata ad un racconto in cui si «accompagnava lo spettatore in una visione frontale, spazialmente e temporalmente definita», con la presenza di ‘personaggi’ che ritornavano di opera in opera con caratteristiche differenti, mostrando in nuce in ogni spettacolo i segni di quello seguente,[6] e con l’ausilio di oggetti di scena profondamente espliciti che quasi trascendono la loro funzione convenzionale (Motel-Prima stanza, 2008).
Dei riferimenti alle arti visive – tra cui cinema, fotografia, pittura – palesemente presenti nei primi lavori, se ne rilevano oggi solo tracce; si tende alla loro rammemorazione e a valorizzare l’incidenza dei ricordi sedimentati nelle dinamiche del corpo, conferendo complessità alla composizione, allontanandosi da «un codice di accesso riconoscibile».[7] Come nella consuetudine espressiva della danza contemporanea, nelle partiture i corpi utilizzano diversi linguaggi mettendo in atto una contaminazione di generi;[8] è possibile individuare passi e figure retaggio della danza classica ed anche continui riferimenti alle pratiche atletiche della ginnastica artistica, spesso presenti nei lavori di nanou, in un regime di apparente spontaneità; la partitura si snoda in costante aderenza al suolo, i danzatori a piedi nudi sperimentano nuove possibilità espressive, tra bilanciamenti del corpo e continue trasgressioni ai limiti fisici possibili, in un susseguirsi di slanci, cadute e rapidi sollevamenti.
In particolare questo processo, definibile di trasmissione coreutica, utilizza «un disegno aperto» col quale i corpi sono plasmati in un «discorso in divenire», che muta secondo inclinazioni e variazioni di chi ‘porta’ la danza.[9] Privilegiando stratificazione e progressione si superano i confini fissati, si cercano equilibri, si disegnano paesaggi performativi in cui coreografie aleatorie sono costruite con lo spostamento casuale di piccoli blocchi coreografici prestabiliti.[10]
I capitoli che strutturano Alphabet: Sistema, Resa, Relazione, Lessico, con un format duttile e flessibile ai luoghi, tentano la sistematizzazione di una prassi compositiva razionalizzando gli elementi del sistema. La natura autoriale[11] del lavoro non può sottrarsi all’individualità dei suoi componenti e alle loro relazioni.[12] La sperimentazione è condotta tra improvvisazione e rigore, destrutturando un discorso poetico; il collegamento tra le parti dedicate ai diversi elementi avviene in un costante rifiuto di figure cristallizzate, nella rinuncia al testo e alla scenografia ‘narrativa’; la scena è geometrica, architettonica, pur se svincolata dal luogo. È articolata orizzontalmente da linee rette e figure: una ‘mappa’[13] con diverse possibilità di interpretazione ed uso che, lasciata da scoprire come unico elemento scenico orizzontale con pochissime indicazioni, determina la fusione degli elementi dinamici in nuove desinenze e declinazioni, con un continuo innovarsi del lessico. Questa architettura ‘al grado zero’, da cui il performer ricava quel sistema di vincoli necessari all’atto creativo per evitare una sommatoria di gesti priva di struttura, se lasciata visibile a processo creativo terminato genera per lo spettatore un mezzo di approccio alla lettura scenica. La mappa è scena ed è segno grafico di riferimento che condiziona l’elaborazione coreografica: sono possibili proiezioni del corpo in infinite direzioni che materializzano i contorni di ‘volumi ideali’. Si definisce una scrittura scenica di movimenti, eseguiti su un mix di improvvisazioni, correzioni e variazioni creative che, disposti volta per volta in elementi spaziali dedicati, tracciano una trama in divenire che rimaglia l’ordito dei ‘percorsi’. Queste tracce, recepite come ricordo dal danzatore, sono memorizzate anche dallo spettatore, che tratteggia i contorni di una scena che accoglie il movimento.
alphabet - © margherita masè - Dancers: Carlotta Fanelli, Eloise Listuzzi, Jane Llaha
3. Diario di bordo di un processo creativo
gruppo nanou inizia la sua settimana siciliana della tournée Alphabet, progetto di scrittura per una danza possibile – alternandosi tra Viagrande Studios e Scenario Pubblico [14] – proponendo momenti di dialogo, di riflessione e di approfondimento della propria ricerca coreografica, nell’ambito di un laboratorio/incontro in cui l’interazione tra gruppo, amatori e danzatori sfocia in un work in progress dal titolo esplicito: Sistema.[15] Questo mix rende estremamente vivace il clima dei giorni di lavoro, dando vita ad una serie di scambi, di reazioni a catena, in cui l’attività coreutica ne risulta arricchita, ed i partecipanti scoprono, nell’interazione con la compagnia, alcuni degli strumenti necessari per decodificare la ricerca pluriennale del gruppo. La verifica sperimentale del processo di scrittura svela un linguaggio in continua evoluzione, seguito dal suo nascere fino alla sintesi performativa; attraverso momenti di partecipazione collettiva ad un learning on the stage gli osservatori si appropriano autonomamente della metodologia. Questo prodotto nasce ogni volta dalla sovrapposizione e dalla sintesi armonica dei progetti individuali e degli ‘incidenti a reazione poetica’ – citando Le Corbusier, per riferirsi di nuovo all’architettura –, quelli che Marco Valerio Amico chiama «incidenti creativi». Questi benefici imprevisti sono provocati dalla coazione di ‘motori’ diversi e dai cambiamenti determinati sui corpi da frizioni sinergiche. L’obiettivo non è un disegno, una partitura basata su un susseguirsi di figure, ma il continuo perseguire equilibri, alternati a nuovi e sconosciuti sbilanciamenti. La sperimentazione si arricchisce poi di nuovi elementi: vengono introdotti i concetti di ‘spazio’ e di ‘tempo’. Lo spazio è il luogo definito e misurato dai corpi dei danzatori che, assumendo posizioni di agio o disagio, lo modificano con la loro azione, costruendo architetture di cui sono parte integrante. Due sono i tipi di spazio individuati: «mobile» e «architettonico»; è necessario nutrirsi di entrambi. Nel primo si attua un processo a catena: «l’azione modifica lo spazio e lo spazio modifica l’azione che, per aderire al nuovo spazio creato, modifica se stessa e modificando se stessa modifica nuovamente lo spazio che, essendo modificato, propone un nuovo cambiamento all’azione. È un effetto senza soluzione di continuità».[16] Il secondo si riferisce all’organizzazione di un paesaggio in cui l’azione si dipana: dunque alla mappa e alla forma che assume lo spazio, rendendo leggibile il dispositivo coreografico.
Lo spazio, infatti, fin dall’inizio del workshop si manifesta nelle risorse offerte dalla ‘mappa’ precostituita: un disegno geometrico sul piano orizzontale dello spazio scenico, costituito di rette che si intersecano nel formare spazi triangolari e trapezoidali, ambiti chiusi e aperti che assumono il ruolo di aree creative; un progetto di ‘traiettorie’ che definiscono il campo d’azione di ‘personaggi’ definiti, inizialmente indipendenti. Si tratta di un ‘territorio-matrice’ che imbriglia la scrittura scenica entro alcune regole prefissate, fornendo al sistema un palinsesto, che potrebbe definirsi come struttura, ossia «insieme di relazioni applicate ad un insieme di entità o componenti».[17] La natura di tale struttura segue i principi che sorreggono la nozione di sistema: un’«entità autonoma di dipendenze interne, in un tutto formato da elementi solidali, tale che ciascuno dipenda dagli altri e non possa essere quello che è se non in virtù della sua relazione con gli altri».[18]
Il ‘sistema di regole’ viene profondamente modificato dal ‘sistema di differenze’: due corpi di diversa struttura che perseguono un progetto d’azione individuale, mantengono inalterato il principio del movimento fino al loro incontro (‘aggancio’). Gli algoritmi che regolano l’azione dei singoli corpi (‘progetti’) diventano leggibili a tratti, alternati ad un algoritmo unico, indissolubile e continuamente rigenerato. L’identità che ogni ‘personaggio’ manifesta, nella composizione temporale personale, resta sempre presente, ma si modifica parzialmente nell’‘aggancio’ con gli altri, con una condivisione collettiva del proprio progetto; questo, macroscopicamente, si manifesta con lo spostamento di traiettoria, ma anche di ritmo, tempo e volume. Si producono ‘accelerazioni, squilibri, vibrazioni fisiche, tensioni, riassetti, agganci, nuove alleanze, perdita di sincronia, espansioni, territorializzazioni’. È questa la terminologia di Alphabet che definisce il sistema di segni e le dinamiche di ripetizione.
La singola scrittura subisce una ri-scrittura corale che modifica la composizione. Lo spazio si percepisce in modo intermittente, concretizzato nelle frazioni di secondo in cui il gesto – l’uso degli arti – ‘occupa’, ‘abbraccia’ e ‘sposta’ i confini spaziali, determinando ‘nuove periferie’ e gestendo ‘nuovi territori’. L’occupazione dello spazio si amplifica nel movimento trasmesso agli altri in un progetto comune; da un disegno semplice vengono a crearsi complesse proiezioni che collocano tracciati, fissano punti virtuali, concretizzano lo spazio. Il progetto corale si apre e mostra la sua ‘struttura di sostegno’ con lucidità, restituendo significato al ‘sistema simbiotico’ di parti mutuamente dipendenti, che «spingono a cambiare le modalità relazionali, a creare nuovi rapporti e modalità di interazione», mettendo in discussione apparati consolidati.[19] Il pubblico attento attua una lettura prossemica, appropriandosi del sistema di regole, abituandosi a cogliere le interferenze tra corpi come occasioni di contaminazioni, conquiste di potenzialità corporee.
Tutto il progetto ruota attorno al concetto fondamentale di ricordo, intenso come la memoria del corpo. Le tracce mnestiche di alcuni esercizi propedeutici – svolti in due o tre persone – che sperimentano le possibilità di movimento durante il sollevare, il trascinare e il fare rotolare un corpo non reattivo, imprimono segni sui corpi. Questi ricordi costituiscono la base per le soluzioni dinamiche da adottare. Sui ricordi si moltiplicano e si ripetono le situazioni, registrate e metabolizzate sul proprio corpo. Quest’ultimo, arricchito di una nuova consapevolezza, riesce a individuare i ‘punti di dominanza’: un ‘sopra’ e un ‘sotto’, un’architettura del corpo con sezioni ‘basse’ e ‘alte’, dove il ‘motore’ è di volta in volta determinato e modificato da ‘centri’, ‘assi’, ‘periferie’. Un’ulteriore terminologia che va ad aumentare il lessico di Alphabet.
Il tappeto sonoro su cui si muove il tutto determina infine ulteriori sincronie, aggiustamenti, punteggiature con pause più o meno marcate. Le figure geometriche dello spazio scenico di partenza si modificano e si estendono in modo elastico, guadagnando al gesto cambi di dimensione.
Bibliografia
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