Il tempo materiale è il titolo di uno dei più importanti romanzi del panorama contemporaneo, in cui lo scrittore Giorgio Vasta esplora il tema della violenza come “ipotesi cosmica”, come possibilità sempre presente di costruzione dell’umano, terribile e affascinante al tempo stesso. “Tempo reale” è, invece, il nome scelto per l’ultima edizione di Ipercorpo, un’edizione – come tante altre relative agli appuntamenti festivalieri di quest’anno – che è stata spostata, rimandata e che ha convissuto per mesi con l’incertezza organizzativa (ed esistenziale) determinata dalle misure di contenimento del Covid-19. Nella distanza che separa il concetto di “realtà” da quello di “materiale” sta forse la misura dei cambiamenti intervenuti nella progettualità di direttori, artisti e (anche) spettatori: l’esigenza di immaginare un tempo e un contesto nuovi, che sappiano andare oltre ciò che è appena stato senza rimuoverne le ferite, ma nella consapevolezza che esiste pur sempre una concretezza che resiste all’idea, un arcipelago di condizioni materiali che impongono costantemente di riposizionare il pensiero.
Gruppo nanou è, d’altronde, una formazione che ha sempre saputo posizionarsi in un territorio di frontiera, all’incrocio di diversi stili e diverse discipline. Diceva a questo proposito Lorenzo Donati in un breve saggio apparso qualche anno fa su “Arabeschi”: «Discutere di gruppo nanou parlando ‘solo’ di danza, nell’Italia delle arti sceniche odierne, ci costringerebbe a restringere eccessivamente la focale su orizzonti disciplinari che da tempo chiedono di essere considerati nella loro molteplicità. Non sarà un caso che i pochi tentativi di tracciare dei racconti complessivi si siano dovuti confrontare con una irriducibilità di fondo, come se a differenza dei movimenti delle arti sceniche del passato sia oggi molto difficile individuare tendenze, filoni, estetiche che accomunino diverse poetiche. Si tratta di un dato di fatto che non può essere eluso, una precondizione certamente da mettere in discussione ma che allo stesso tempo deve interrogarci, se non vogliamo osservare il presente con strumenti appartenenti al secolo scorso, e produrre così fotografie già superate nel momento stesso in cui si tenta di scattarle».
In tal senso, allora, la scelta di scomporre il processo creativo, di aprirlo a diversi gradi di prossimità e trasparenza nei confronti degli spettatori e provare a inserire simili momenti di apertura in un più ampio percorso di composizione coreografica non è solo un’iniziativa dettata dal post-emergenza pandemica, ma sembrerebbe quasi rappresentare una “naturale” evoluzione del linguaggio della compagnia. Uno dei principali obiettivi – ci viene detto durante l’incontro – è quello di «rompere col formato platea-palcoscenico», un formato che è sì rassicurante, perché mantiene le distanze, ma che forse non ci consente di ricostruire un senso di comunità dopo quello che è successo. In che modo ristabilire una orizzontalità partecipativa? Come ritrovare – registi, attori, perfomer, spettatori – una medesima dimensione percettiva? Magari è possibile leggere la biografia artistica di gruppo nanou non solo come un percorso giù avvenuto o anche solo in fieri, ma come vera e propria indicazione e traiettoria possibile per il futuro: come se l’ibridazione, l’accavallamento dei formati e delle forme, la commistione talvolta inevitabile fra reale, virtuale e concreto fosse un’orizzonte quantomai necessario per reinventare la compartecipazione teatrale, un tempo (?) riservata a un contesto prevalentemente e strettamente fisico, artigianale, e oggi intrappolata in un labirinto di mediazioni, talvolta stancanti e “innaturali” ma che sarebbe ingenuo far finta non esistessero.
Arsura – © gruppo nanou – Dancer: Rhuena Bracci
Se osservati sotto la lente di una sostanziale sincronia di intenti, allora, i tre momenti di Conversazione per Arsura (un incontro, una prova aperta e uno spettacolo di danza, come da programma del festival) della prima giornata di Ipercorpo ci dicono della ricerca di una nuova spazialità teatrale. A essere più precisi, della ricerca di una nuova relazione dei perfomer con lo spazio, e del coreografo con la visione degli spettatori (che entrano più attivamente a far parte della creazione dello spettacolo, seppure “dentro” un dispositivo come quello dell’interazione verbale) e ancora del danzatore in quanto individuo con il senso di collettività comune che è dato dalla condivisione fisica di un medesimo spazio-tempo, in un continuo rincorrersi e rimpallarsi di confronti, riscontri e riscritture come si trattasse di un infinito gioco di specchi e di intermediazioni. Ecco perché quando si spengono le luci in sala e ha inizio la parte più tradizionalmente spettacolare di Conversazione per Arsura, la prima cosa che vediamo è un doppio del palco, un’emulazione ri-semantizzante della quarta parete: in mezzo alla scena è sospeso nel vuoto un lungo telo, con una parte poggiata al suolo e un’altra a salire in verticale, come lo sfondo utilizzato negli studi fotografici. Sembra quasi dire: proviamo a scomporre e ricomporre la nostra stessa idea di “scena”, di spazio finzionale. A fianco di questo elemento scenografico, ma che quasi assume funzioni drammaturgiche, Rhuena Bracci (storica danzatrice e co-autrice della compagnia) ha tutto il corpo avvolto in un vestito coprente, con fattezze che ricordano quelle di un burka. I suoi movimenti sono sinuosi ma al tempo stesso talmente precisi ed “esatti” da risultare – in un certo senso – meccanici: come fossero l’espressione di una funzione matematica, di un algoritmo. Lo sforzo è impercettibile, data la padronanza delle figure composte. I gesti si trasmettono con ricorsività fluida ed oliata dalle braccia alla rotule, dalle articolazioni delle spalle alla base dei polsi. Non è un corpo: è un immaginario in movimento, che annulla la propria individualità tangibile per coagulare su di sé tutta una serie di preconcetti e rappresentazioni previe, una fantasmagoria coreografica. Il lungo telo sospeso non fa che complicare (nell’accezione più neutra del termine) la visione: aumenta i punti di interesse, si costituisce come una variabile x in relazione alla quale di volta in volta si dà il posizionamento della performer sul “palco”.
Siamo di fronte a un intero festival-laboratorio? Forse ha senso rispondere affermativamente. Se l’emergenza pandemica ha creato uno stato di incertezza, l’assunzione di quest’ultima come principio organizzativo e la sua condivisione con gli spettatori in quanto ipotesi di creazione comune rappresentano una delle possibilità che si apre in campo teatrale da qui in avanti. Non per vezzo di sperimentazione, ma proprio per necessità di riappropriarsi di uno spazio condiviso di proposta, da un lato, e di fruizione, dall’altro, di con-scrittura fra autore e pubblico di nuove idee di corporeità (senza le quali qualsiasi visione risulterà sempre monca). Di fatto si tratta di costruire insieme nuove realtà, che ancora hanno da farsi situazione concreta, tempo materiale.