Claudia Cannella, Hystrio
Una poltrona rossa un po’ vintage al centro della scena, sovrastata da una sorta di gabbia stilizzata composta solo da quattro bracci metallici e chiusa, sul fondo, da una tenda a frange che trascolora a seconda dei tagli di luce. In questo habitat, che richiama quelle suggestioni visive alla Edward Hopper, che tanto avevano inciso nella precedente trilogia Motel, il gruppo nanou ambienta il primo capitolo di un nuovo progetto triennale intitolato J.D.. J.D. sta per John Doe (nelle successive tappe saranno Jean Doe e Baby Doe) che, nel gergo giuridico americano, indica persone di identità sconosciuta. Ecco, l’assenza di identità è il cuore di questo lavoro, governato da un immaginario sospeso fra un senso di vuoto e di attesa alla Raymond Carver, le inquietudini oniriche di David Lynch e, come già si scriveva, le solitudini metafisiche della pittura di Hopper. L’azione sembra dipanarsi per quadri, dove frammenti di esistenze misteriose si sfiorano o si intrecciano, prendendo la forma di tre danzatrici e un danzatore (in realtà una donna vestita da uomo, che a tratti pare un corpo decapitato). Non c’è dichiaratamente alcun tipo di narrazione, si procede per assonanze visive, che corrono il rischio però di trasformarsi in eleganti variazioni sul tema. E’ come se lo sviluppo “orizzontale” di questa non-narrazione impedisse l’irrompere, anche emotivo, di elementi destabilizzanti “verticali”. Come se un vetro trasparente separasse l’azione scenica dal sentire dello spettatore. Potrebbe essere il significato estremo dell’essere un John Doe o un limite da superare. Vedremo come se la caveranno Jean Doe e Baby Doe.