Lo sperimentale Xebeche del gruppo Nanou e il già collaudato Utsushi Dei giapponesi Sankai Juku hanno inaugurato la danza al <>, prima dell’arrivo, imminente, della Twyla Tharp Dance. Con Nanou, nel suggestivo spazio delle artificierie Almagià, la vetrina romagnola si è auto celebrata: formato da Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura l’ensamble è di casa: rigoroso, impassibile nel perseguire la propria ricerca senza sbavature, trae il suo nome da un brano, Nannou, di Aphex Twin, ma anche da un nomignolo dialettale “nanò” o “tesoro”. Con Utsushi – tra due specchi – si è invece ridestata un’estasi esotica: sono tornati, al Pala De André, i Sankai Juku con la loro musica quasi impercettibile che fa suonare il vento, e quella caotica creata da una sorta di Tom Waits nipponico. In vesti ampie e candide, hanno sollevato la stessa polvere bianca – biacca o forse solo farina – anche appiccicata ai loro volti neutri e maschili – sono sei uomini -, i loro crani rasati.
Paradossale e impossibile ogni confronto: i Nanou sono nati nel 2004, i giapponesi frutto di un butto di seconda generazione, nel 1975, eppure entrambi partono dall’esigenza di cancellare l’identità della persona per approdare ai risultati opposti. Il titolo Xebeche sta per <<colui che parla ad alta voce senza dire nulla>>, oppure preferisce essere chiamato Nessuno, non come lo scaltro Ulisse, enzì come l’indiano del film Dead Man di Jim Jarmush. I riferimenti cinematografici sono sempre presenti, o quasi, nelle pièce dei Nanou: qui, come nella pellicola di Jarmush tutto è in bianco e nero: dal tappeto di danza – una elle nivea come un quadrato sufficientemente ampio da contenere gli otto perforare – ai costumi in tinta. Maglie, culottes, due pezzi, tutine, più certi occhiali tondi, vezzo di un giovane e fascinoso Johnny Deep nel Dead Man del 1995. Il resto è pura composizione coreografica, priva di racconto, ma non di espressività o di pensiero, in questo caso ossessivo-ipnotico, sostenuto dal tocco radi di musica metallica, cupa, a tratti eccitata, e da luci assai calibrate.
Se il vocabolario acrobatico è allettante ma limitato – verticali, ruote, spaccate aeree e via così -, le ripetizioni di frasi dinamiche, gli “a capi” e i raggruppamenti pulviscolari sono disposti con non comune accortezza in relazione o in aperto battibecco con lo spazio che li attrae e li rigetta. Ai Nanou gioverebbe, anziché teorizzare una coreografia del suono, dell’immagine, del movimento, risalire alla tradizione delle arti disgiunte di Cage/Cunningham per trovare il bandolo di una matassa linguistica ad ampio spettro, ed esplorare tutte le potenzialità del corpo. Xebeche è comunque originale: come un piano sequenza imploravo ed esplosivo, lascia vagare lo sguardo e la mente tra dettagli e insiemi, rigidità e mollezza.
Quest’ultima qualità appartiene anche ai Sankai juku, alla misteriosa malia, quasi sacrale, sempre ricercata da Uscio Amagatsu, il loro leader. La sua estetica è lontana dai tormenti della “danza delle tenebre”, dal butoh delle origini istintivo e dionisiaco, e forse più vicina alla lussuosa avvenenza di un Kabuki senza avventure da narrare. Qui in Utsushi – nato nel 2008, ripreso nel 2014 anche al Teatro “Claudio Abbado” di Ferrara – si mescolano estratti da vari lavori, rappresi attorno al tema del rispecchiamento. Lo specchio come metafora, guida le simmetrie, la simultaneità, l’unisono dinamico delle candide creature in scena. Esse cadono, si rialzano con le ginocchia flesse e i busti eretti; cercano la gravità e il suo contrario. Tra terra e cielo, raggi e strisce luminose scoprono se stesse negli altri.

Xebeche - ph © Daniele Casadio - dancers: Carolina Amoretti, Sissj Bassani, Marta Bellu, Rhuena Bracci, Enrica Linlaud, Marco Maretti, Rachele Montis, Davide Tagliavini

Xebeche [csèbece] - © Daniele Casadio - Dancers: Carolina Amoretti, Sissj Bassani, Marta Bellu, Rhuena Bracci, Enrica Linlaud, Marco Maretti, Rachele Montis, Davide Tagliavini

19/06/2016 - Marinella Guatterini, Il Sole 24 Ore