Il percorso di ricerca che il ravennate gruppo nanou ha intrapreso con il progetto Motel – Faccende personali non mette in discussione soltanto la costruzione dello spettacolo teatrale, ma tenta di interrogare le modalità fruitive dello spettatore. Fino a che punto l’azione performativa diviene funzionale alla messa in scena di una costruzione drammaturgica? Può l’azione scenica essere semplice contorno della linea diegetica della narrazione? E quando la diegesi si muove all’esterno dello spettacolo stesso, cosa è tenuto a guardare lo spettatore?

Seconda stanza [Motel] - © Laura Arlotti - Dancers: Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
Ospitata dal festival Fabbrica Europa di Firenze, la seconda stanza della trilogia pensata da gruppo nanou radicalizza e stravolge gli elementi presentati attraverso la prima tappa dello stesso progetto. Motel - Prima stanza si svolge in un ambiente asettico e straniante in cui i performer Rhuena Bracci e Marco Valerio Amico compiono gesti minimali e apparentemente insignificanti, lasciando che la perturbazione dello spazio e degli oggetti scenici (due sedie, un tavolo, una tovaglia, un tappeto, una gabbietta per gli uccelli) raccontino la trama inquietante di un evento del quale il pubblico può percepire solo il riverbero.
In questi oggetti è custodita una dimensione fantasmagorica e straordinaria dalla quale si diramano i brandelli di una drammaturgia surreale, costruita attraverso la simulazione del montaggio cinematografico di frammenti scenici non consequenziali: un suggeritore dalle vesti vampiresche presenta su un gobbo messaggi enigmatici, una donna senza volto in una veste rosso fuoco appare improvvisamente sullo sfondo della scena, mentre i performer sembrano continuamente turbati da un tempo ermetico e immobile.
La seconda stanza di Motel perde la sua neutralità. Il bianco e le luci pallide costruite dal light designer Fabio Sajiz, i suoni minimali composti da Roberto Rettura lasciano spazio a un ambiente caldo e avvolgente: nella stanza di questo albergo in stile anni ‘50 si stagliano un divano, due poltrone di pelle rossa, un tavolino di legno sul quale sono poggiati dei bicchieri e dei cappelli, una lampada da terra in stile Castiglioni e uno specchio a scomparsa. Allo stesso modo, come a voler riprendere l’exploit finale del primo episodio, una violenta esplosione di bassi e una voce inquietante sembrano precipitare lo spettatore nel punto zero della messa in scena. “Non volevo svegliarti, ma c’è qualcosa che devi vedere”, dice una voce maschile dando il via a un insieme di immagini rapide e violente. Nel motel si è compiuto un omicidio.
Se lo spettacolo sembra basarsi su un respiro drammaturgico, provocatoriamente evocato nella prima tappa del progetto, in realtà gruppo nanou estremizza i meccanismi messi in moto con Motel - Prima stanza. Come in quest’ultimo lavoro, l’azione diviene la conseguenza di un racconto che accade in uno spazio escluso dalla scena teatrale. Di questo luogo, che sta al di là dello spazio scenico, è dato vedere solo l’accendersi di luci, la proiezione delle ombre di finestre e di porte che si aprono verso un altrove efferato in cui l’enigmatico atto omicida ha luogo.
La narrazione, presente eppure esclusa dal palcoscenico, viene filtrata dalla stanza del motel, per svelarsi in una costruzione drammaturgica cubista che smonta e dilania tempo e spazio per appiattirli sulla stessa superficie. Lungi dall’essere chiamato a decifrare un codice incomprensibile, il pubblico assiste all’apertura dei meandri di infinite dimensioni dinanzi alla quale è costretto a pluralizzare il proprio sguardo. Prima voyeur lasciato a spiare questa stanza d’albergo come da una serratura, lo spettatore finisce per essere testimone invisibile di un evento efferato eppure silenzioso come i quadri di Hopper.
Come nelle tele dell’artista americano, i personaggi messi in scena da gruppo nanou non sono mostrati nella loro intimità ma nell’istante in cui avviene il distacco dalla loro stessa personalità: come cadaveri, come assassini sorpresi nel folle atto omicida, amanti impazziti che ripetono come macchine le azioni di una scena serializzata; macchie di colore prigioniere di un frammento dimensionale eternamente uguale a se stesso.
Eleganti, fluidi, sensuali, i movimenti di Bracci scivolano sulla pelle dei divani e delle poltrone come scivolerebbero le donne dei film di Wong Kar Wai. La performer lascia intravedere frammenti di mani, di piedi; stesa sul divano tira su la sua veste rossa, lascia vedere le cosce, le accarezza. Eppure anche questa sensualità, nel momento in cui viene esibita, sembra non appartenere più al suo corpo e si mostra al pubblico attraverso i riflessi di uno specchio frammentato che scompone ancora una volta l’immagine.
Come Wong Kar Wai in 2046, gruppo nanou costruisce il proprio spettacolo ai margini della scena, come nei film di David Lynch lascia emergere da questi bordi di cornice elementi ambigui, destabilizzanti e ironici (in un frammento dello spettacolo i tre performer si esibiscono in un balletto tratto da Bande a parte di Godard), come nei quadri di Ryan Mendoza mette in scena personaggi polisemantici, come nelle fotografie di Gregory Crewdson racconta ambiguità relazionali.
Ma questo impianto di citazioni si scompone e ricompone in una geografia rizomatica. Di questo rizoma la scena teatrale è solo un punto di passaggio, di intersezione, il possibile punto focale di molteplici prospettive in cui i personaggi si ritrovano per caso, per sbaglio, per piccoli e banali eventi casuali. E la meravigliosa capacità di gruppo nanou diviene rendere lo sguardo dello spettatore altrettanto casuale, pur immergendolo in una dimensione emozionale permeata di tensione e sorprendente adrenalina. Da qualche parte, in un angolo sperduto dell’universo, in una dimensione parallela, una stanza di motel ci attende.