Convegno internazionale di studi organizzato da Università degli Studi di Padova, Università di Lille, Istituto per il Teatro e Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, 15-17 gennaio 2020. Il convegno è parte del progetto Lumière de Spectacle.

Il colore si fa spazio: Abstract

Il colore si fa spazio è un progetto che nasce nel 2017 dall’incontro tra la ricerca coreografica di Marco Valerio Amico e gruppo nanou, incentrata sulle complesse relazioni tra corpo, spazio e luce, e la ricerca visiva di Daniele Torcellini, dedicata ad enfatizzare l’instabilità percettiva del colore. Già impegnato sul fronte di una ridefinizione dei processi coreografici attraverso un approccio analitico nei confronti del metodo di lavoro, gruppo nanou prosegue il lavoro sulla spazialità articolando, con Daniele Torcellini, scarne scenografie di impronta minimalista e con un richiamo al Neoplasticismo, fatte di superfici colorate nei tre colori primari, orientate nelle tre direzioni cartesiane, illuminate da luci LED cangianti. Il cambiamento del colore delle luci illuminanti e dell’intensità dei fasci luminosi genera uno spazio instabile, in continua trasformazione, a seguito dell’incostanza del colore percepito delle superfici, con il quale l’azione coreutica entra in una relazione, anch’essa instabile e continuamente oggetto di riscrittura da parte dei performer. Il colore, nel suo inestricabile rapporto con la luce e con l’osservatore, sia che si tratti del colore delle superfici o dei corpi in scena, sia che si tratti del colore dello spazio ambientale complessivo, spogliato da ogni valenza simbolica, concettuale o iconografica, entra in gioco in qualità di strumento con cui modulare, nel tempo, lo spazio. Il progetto, ad oggi, si è incarnato in diverse soluzioni più o meno ibride tra spettacolo da palcoscenico (come in We want Miles, in a silent way) e performance/installazione liberamente fruibile dal pubblico in termini di durata dell’esperienza e scelta del punto vista (come in Neverwhere).

Il colore si fa spazio – © Daniele Casadio

Il colore si fa spazio: Premessa tecnica

Il complesso sistema visivo umano, costituito da occhi, nervi ottici e aree visive cerebrali, ci garantisce un’esperienza intensa e soddisfacente del colore. Sebbene il colore non esista di per sé al di fuori della mente di un osservatore, siamo naturalmente portati a considerare il colore come appartenente alle cose che guardiamo. Il colore, nel modo più consueto di percepirlo, ci sembra una proprietà delle superfici o del volume delle cose che guardiamo. Il colore di una moquette o il colore di un calice di vino bianco. Grande fascino però rivestono tutti quei fenomeni cromatici in cui questa sensazione viene meno per qualche motivo. Il colore di un tramonto, nel suo svolgersi, è nella quasi ineffabilità dello spazio ambientale che ci circonda piuttosto che in una superficie specifica. Allo stesso modo, se non con ancor più enfasi, apprezziamo quelle manifestazioni di iridescenza dove ciò che guardiamo non presenta un unico e stabile colore ma quasi l’intero spettro cromatico, cangiante in base al nostro punto di vista, come è il colore delle bolle di sapone o del piumaggio di certi uccelli. Il colore cangiante attrae il nostro sguardo, come fosse un colore più intimamente vicino alla natura più profonda del colore.
Irrompono poi nello scorrere delle bacheche dei social network quelle immagini che, come a risvegliarci da uno stato di torpore, ci impongono di abbandonare almeno per un attimo quella posizione che gli studiosi di psicologia della percezione definiscono del/della realista ingenuo/a, di colui o colei cioè che crede che il mondo sia proprio come ci appare e che ci sia una perfetta corrispondenza tra fenomeno fisico e fenomenologia. Una posizione che assumiamo tutti nella nostra vita quotidiano anche perché il nostro sistema percettivo si è evoluto in modo da permetterci di muoverci e agire nel mondo avendone una efficace rappresentazione mentale, interiore, tale da non farci dubitare della parzialità delle nostre impressioni. Così non è, però, e l’esempio dello scatto fotografico, divenuto virale sul web, di un vestito, visto come colorato in righe orizzontali blu e nere da alcuni e bianche e oro da altri, ha aperto una breccia particolarmente significativa. La platea di osservatori si è spaccata in due, ognuna delle due metà incredula del fatto che l’altra potesse avere della stessa immagine un’esperienza così diversa dalla propria e, proprio per questo, costretta a fare i conti con l’ambiguo rapporto tra mondo esterno a noi e percezione di esso. Sì, perché una delle caratteristiche più penetranti del nostro sistema visivo è la cosiddetta costanza del colore. Il fenomeno per cui il colore della superficie di un oggetto ci appare pressoché sempre lo stesso pur al variare della luce che lo illumina. Edwin Land, fondatore della Polaroid e anche instancabile studioso della percezione visiva, è stato tra i primi a dare conto della costanza del colore, ipotizzando un modello di funzionamento del sistema visivo umano, chiamato Retinex, per il quale percepiamo il colore di un’area in relazione al colore delle aree ad essa circostanti e non in modo assoluto, come se fossimo uno scanner che di quell’area misura i valori di intensità delle lunghezze d’onda da essa riflesse. A verificare il modello Retinex ha poi pensato il neurobiologo Semir Zeki, individuando una porzione del nostro cervello deputata a compiere questo genere di confronti, sebbene prima di lui, adottando un approccio sperimentale e non teoricamente sistematico, da artista, aveva pensato Josef Albers, studiando le interazioni dei colori tra di loro. Ecco che, sebbene la qualità della luce illuminante, in termini di distribuzione e intensità delle onde elettromagnetiche dello spettro del visibile, cambia nei vari momenti della giornata, o in base al tipo di corpo illuminante che ci illumina, il sole, una candela, una lampada a fluorescenza, con filamento al tungsteno, alogena, LED e così via, vediamo i colori del mondo esterno a noi costanti e non fluttuanti come invece è lo spettro di lunghezze d’onda che emettono di caso in caso. C’è però l’altra faccia della medaglia. E alla costanza del colore corrisponde l’incostanza del colore, il fenomeno per cui l’apparenza di un colore cambia al variare della luce che lo illumina. Il progetto Colore? nasce con l’idea di enfatizzare questa instabilità del colore, scegliendo e stampando una determinata gamma cromatica su carta per poi illuminare le stampe con lampade LED a luci cangianti. Obiettivo del progetto è mettere chi osserva nella condizione di vedere una superficie materialmente ben individuabile come cartacea, i cui colori cambiano nel tempo così da produrre anche un cambiamento nello spazio della superficie, in un modo non dissimile a come siamo abituati a veder cambiare i colori di un monitor video o di una video proiezione.

Il colore si fa spazio - ph. © Gianluca Naphtalina Camporesi

Il colore si fa spazio – © Gianluca Naphtalina Camporesi – Dancers: Sissj Bassani, Rhuena Bracci

Il colore si fa spazio: L’incontro

Nel settembre del 2017, invitato da Daniele a visitare Colore?, l’installazione di colori stampati illuminati da luci cangianti, allestita nel suggestivo ambiente dell’Antico Convento di San Francesco a Bagnacavallo di Ravenna, per la cura di MAGMA, Marco intuisce quanto importante potesse essere il dispositivo luministico-cromatico impiegato, per l’evoluzione di un processo coreografico basato sulla definizione e sulla costruzione di spazi dinamici.

Nella coreografia di gruppo nanou, lo spazio è quasi sempre il punto nodale da cui costruire i progetti. Lo spazio è inteso sia come luogo in cui svolgere l’azione, sia come azione che determina la percezione di una spazialità. Un corpo nel deserto agisce differentemente da un corpo in una stanza, così come uno sguardo nel deserto si pone differentemente da uno sguardo in un luogo chiuso. Così è interessante determinare come un’azione nel deserto possa essere trasposta in una stanza, o vice versa, con la finalità di restituire uno straniamento percettivo. Non è una questione di immaginazione o di suggestione, è un problema di percezione sensoriale.
La luce, per come è sempre stata usata nel lavoro di gruppo nanou, è uno strumento spaziale. Fin dai primi lavori, il gruppo e il light designer Fabio Sajiz con cui collaborano, notano che non è importante cosa mostrare con la luce, ma cosa nascondere, per sondare le possibilità immaginifiche del buio. Lo spazio fisico e la luce, in quanto spazio, collaborano, insieme all’azione fisica, alla determinazione del tempo e costruiscono il ritmo. Il ritmo non è inteso come un pattern ripetuto nel tempo ma come una punteggiatura del tempo nel tempo.
Quella instabilità spaziale, percettivamente esperibile attraverso il rapporto tra luce, colore e superfici, su cui Daniele stava lavorando, apre, con rinnovato entusiasmo, il percorso di ricerca di gruppo nanou verso un territorio ancora oggetto di esplorazioni, con l’obiettivo non ancora esaudito di ricavare esattezza ed efficacia del risultato artistico dalla complessità che il dispositivo, arricchito della variabile dell’azione performativa, è in grado di generare.
Dopo più di due anni di un lavoro che, nelle intenzioni degli autori, è destinato a proseguire, Marco propone quella che definisce una breve guida del colore nella coreografia. In un linguaggio scarno e apodittico, ma non senza un velo di ironia, si enunciano regole volutamente imperative per determinare limiti che possano rendere possibile l’incidente creativo, l’errore che, in un equilibrio anch’esso instabile tra iperdeterminismo e aleatorietà, ha sempre permesso a gruppo nanou, finora, di individuare imprevisti necessari per procedere verso nuove curiosità.

We want Miles, in a silent way – © Michela Di Savino

Colore e coreografia – Regole del gioco

  1. Il colore è spazio.
  2. Il colore non esiste se non nella mente di chi osserva.
  3. Il colore è astratto.
  4. Il colore è dramma. Lo è anche il corpo. Lo è anche il suono.
  5. Il colore, analogamente a come la decorazione intensifica le superfici, intensifica lo spazio.
  6. Non usare il colore, o il corpo, o il suono per drammatizzare. È inutilmente ridondante.
  7. L’uso del colore è necessario se è spaziale.
  8. Determinare la differenza tra il ritmo dettato dal cambiamento cromatico e il ritmo determinato dall’accensione e dallo spegnimento delle sorgenti luminose. La variazione di intensità luminosa è da intendersi come ulteriore parametro di analisi e di informazione.
  9. Il rapporto tra i colori in un ambiente policromo dev’essere vibrante per sostenere l’alterazione della percezione. Fare riferimento alle serigrafie di Andy Wahrol solo come primo esempio superficiale. Passare poi a James Turrell, Sol Lewitt, Olafur Eliasson, Dan Flavin, Nicolas Winding Refn e altri, non necessariamente in quest’ordine.
  10. Il rapporto tra i colori è determinato dal cambiamento del colore della sorgente luminosa: se lo spazio è alterato dal cambiamento cromatico, il rapporto è corretto. Per spazio, si intende anche il corpo.
  11. Il corpo diventa policromo scostandosi dalla realtà, enfasi di una materia iper-reale.
  12. Il colore policromo sul corpo deve raggiungere il figurale, in collaborazione con la scrittura coreografica che determina il territorio cromatico dell’azione così da decomporre la superficie del danzatore. La figura si isola e si tramuta in fatto fuggendo dall’illustrazione.
  13. Relazionandosi al colore, il corpo entra in una dimensione di dettaglio mantenendo la sua massima ampiezza poiché collabora all’instabilità dello spazio, insieme agli altri linguaggi scenici.
  14. Le scene devono essere scelte per la loro capacità di rispondere al colore.
  15. Lo spazio è articolato seguendo coordinate geometriche così che le scene partecipino nel determinare territori, traiettorie, vie di fuga e nascondimenti. Vale anche per la luce poiché è impiegata per rivelare e svelare spazi.
  16. Se al cambio del colore, gli oggetti scenici mantengono la loro identità, sono sbagliati. Cercarne altri.
  17. I costumi sono intesi come superfici rispondenti al colore a sostegno dell’uso del corpo coreutico, al pari delle scene per la definizione dello spazio dell’azione coreografica.
  18. I costumi devono essere scelti per la loro capacità di rispondere al colore determinando un paradigma di corrispondenza.
  19. Se al cambio del colore, i costumi di scena mantengono la loro identità, sono sbagliati. Cercarne altri.
  20. Il lavoro sul colore è un lavoro sulla percezione. Meglio ribadirlo.
  21. Per raggiungere uno spazio percettivamente efficace, si richiede la possibilità di immergersi nello spazio stesso. Non esiste più un unico punto di vista ma uno spazio unico condiviso tra azione coreografica e sguardo dell’osservatore. Si prendano per riferimento spazi quali Club per musica elettronica, musei, dark room, labirinti, i corridoi di Bruce Nauman.
  22. La coreografia si assume il compito di essere sguardo.
  23. Lo sguardo del pubblico si assume il compito di essere oggetto dello/nello spazio.
  24. Il corpo, la scena, il suono, la luce, il colore, lo sguardo collaborano per la costruzione coreografica che è il perfetto equilibrio relazionale che permette ad ogni elemento di trovare la sua esatta collocazione compositiva.
  25. Lo spazio è mobile e in continuo mutamento. Il corpo del danzatore, il suono, la luce, il colore, l’attività coreografica lavorano inesorabilmente perché le coordinate dello sguardo siano continuamente tese per una variazione in atto.
  26. Lo sguardo dello spettatore dev’essere continuamente sollecitato perché possa posarsi solo se assume un atteggiamento di ricerca che gli permetta e lo spinga a spostare il corpo e diventare peso per la riscrittura dello spazio.
  27. Il progetto coreografico ha significato solo se tutto il procedimento raggiunge un grado di vibrazione epidermica.
  28. La coreografia nasce perché genera e svela spazio.
  29. All’ingresso dello spazio dev’essere installato un bar in servizio.

We want Miles, in a silent way – © Daniele Casadio

Il colore si fa spazio: Conclusioni parziali

Alla luce degli oltre due anni di sperimentazioni sono emerse alcune consapevolezze di tipo polare. La mappatura dello spazio instabile è da intendersi nel rapporto tra bidimensionalità e tridimensionalità. Bidimensionalità delle superfici orizzontali e verticali, tridimensionalità del volume agito. Luce, spazio, colore, corpi, azioni coreutiche, osservatori, definiscono spazi instabili la cui volumetria si enfatizza o si riduce in relazione ai contrasti o alle analogie tra luci cangianti e apparenza dei colori in scena. Le sequenze e le combinazioni dei colori delle luci possono rispondere a criteri che limitano l’apporto autoriale, in relazione tanto alle necessità deterministiche della teoria dei colori, quanto a strategie aleatorie. Lo spazio modernista, reso astratto da superfici monocrome nei colori primari, di taglio minimalista, orientante secondo le direzioni cartesiane, contrasta positivamente con la presenza postmoderna di corpi abbigliati in modo reale.
Ad oggi la sperimentazione continua.

Presentazioni pubbliche

We want Miles, in a silent way, 3 novembre 2019, Danae Festival / Teatro Out-Off, Milano
Neverwhere [prototipo]: habitat per luci, corpi e occhi, 31 ottobre 2019, Mar – Museo d’Arte della Città, Ravenna
We want Miles, in a silent way, 26 giugno 2019, Teatro Alighieri / Ravenna Festival, Ravenna
Alphabet: il colore si fa spazio / workshop, 11-13 giugno 2019, EXATR / Ipercorpo, Forlì
We want Miles, in a silent way 26-28 aprile 2019, La Mama Moves Dance Festival, New York City
Neverwhere [prototipo]: habitat per luci, corpi e occhi, 19-20 ottobre 2018, Fèsta / Ardis Hall, Ravenna
Il colore si fa spazio / Alphabet: progetto di scrittura per una danza possibile, 05 agosto 2018, Artcity / Museo Archeologico dell’Agro Falisco, Civita Castellana (VT)
Il colore si fa spazio / Alphabet: progetto di scrittura per una danza possibile, 24-25 MAGGIO 2018 EXATR / Ipercorpo, Forlì
Il colore si fa spazio / Esperimento, 16-17 febbraio 2018, Ardis Hall, Ravenna
Il colore si fa spazio, 2-3 dicembre 2017, Fèsta / Ardis Hall, Ravenna