“Corpo di un’idea” è l’espressione usata da Marco Valerio Amico per riferirsi alla danzatrice Rhuena Bracci. Rhuena è il corpo dell’idea di gruppo nanou come Xebeche è il corpo del pensiero nanou.
La coerenza con cui lo spettacolo si sviluppa è rara dal momento che spesso nell’arte si tende a volteggi concettuali difficilmente attuabili in scena. Xebeche al contrario crea una continuità tra il pensiero e l’azione. Il corpo si reinventa attraverso una sperimentazione continua dello spazio, dal piano orizzontale della superficie a quello verticale creato dalla relazione con una massa ariosa che accompagna i ballerini per tutta la durata della coreografia. Il flusso corporeo, che parte dal basso per allungarsi in gesto atletico, sembra trarre la propria intensità dal piano scenico con cui i danzatori creano un rapporto sinergetico. La geometria piana diventa forma corporea portando così alla creazione di un movimento puro e lineare. Il corpo si pulisce di quanto è accessorio, si libera da inutili virtuosismi per ricercare una danza essenziale, il cui interesse è rivolto solo al movimento e alle sue relazioni. Non hanno importanza le personalità dei danzatori, bravissimi interpreti del non essere (nessuno): è inconscio senza identità a guidarli. Otto entità distinte abitano rispettivi percorsi coreografici lungo i quali i corpi non interagiscono né si appoggiano l’uno all’altro; sono indipendenti nel loro viaggio onirico. Essi sono da intendersi piuttosto come masse che, in quanto composte da materia, presuppongono un comportamento dinamico determinato da forze esterne. Qui infatti la vicinanza dei corpi diventa un imprevisto da gestire che i danzatori risolvono istintivamente all’interno della geometria scenica. Sembra che a guidarli sia proprio un istinto primitivo tale che la soluzione giunge dal corpo prima che dalla mente. Non esiste del resto gerarchia di coefficienti scenici, in Xebeche essi devono rapportarsi in un medesimo orizzonte. Difficile capire se sia il corpo a danzare sulla partitura musicale o se sia il suono ad agire il corpo.
La coerenza di cui si diceva all’inizio non deve tuttavia risultare restrittiva. Lo spirito nanou è in continua evoluzione e non si pone confini di sperimentazione e finali possibili (l’aver scritto un manifesto non chiude certamente il dialogo con la scoperta). Lo si capisce perfettamente dalle parole di Marco Valerio Amico, col quale abbiamo iniziato proprio da qui, dal concetto di fine e di finale in relazione al tempo, espresso nel suo Manifesto per una danza possibile.

Natascha Scannapieco
Partirei dalla fine: la “fine” del Manifesto per una danza possibile che Marco Valerio Amico firma per gruppo nanou.

Marco Valerio Amico
gruppo nanou non è mai stato capace di fare finali. Abbiamo tentato tante volte senza riuscirsi finché non abbiamo capito che quello che stiamo mettendo in opera e quello che ci interessa è una dimensione di tempo circolare, in cui l’andamento narrativo viene sospeso. gruppo nanou ha attraversato un tempo in cui l’opera non aveva né un inizio né una fine ma solamente un’apertura e una chiusura data dall’entrata e dall’uscita del pubblico. L’inizio e la fine non sono più importanti, è più importante la dimensione di habitat che l’opera stessa riesce a generare. L’inizio e la fine sono per il pubblico non per la scena. E’ per questo che lo spettatore può essere condotto in un tempo già in atto e cogliere una relazione di esaustivi del tempo trascorso. Il finale non è più drammatico, narrativo bensì ritmico, temporale.

N.S.
Una fine quindi che si vuole tenere lontana, che deve essere “scampata” attraverso i coefficienti di corpo, luce e suono. Definire questi elementi “strumenti scenici” ci suggerisce che sul palcoscenico bisogna entrare in relazione con gli oggetti, come in un corpo a corpo, bandendo la personalità. Un corpo deve essere neutro, si scrive nel Manifesto, privo di segni quali i tatuaggi, ad esempio.

M.V.A.
A me interessa quel corpo neutro che, proprio perché tale, si disfa con la fatica, con la dinamica creata coreograficamente e, in quel disfarsi, diventa varco di accesso per chi guarda. Il corpo viene costruito sulle abilità del singolo danzatore e il lavoro coreografico ne fa emergere le peculiarità. Queste peculiarità diventano identità di quel corpo ma senza farne la storiografia.

N.S.
Per troppo tempo compagnie teatrali hanno lasciato spazio all’umanità dimenticandosi forse del concetto stesso di teatralità.

M.V.A.
La teatralità in scena è una cosa molto complicata da definire. Per me la differenza tra essere dentro scena e fuori scena non deve più esistere. Raggiugnere la possibilità di eseguire un gesto atletico con la stessa tranquillità di sedersi a mangiare popcorn è il risultato. Non mi interessa portare dell’emotività costruita o potenziata in scena, l’emotività per me sta nella relazione non tanto nell’interpretazione di qualcosa. Anzi, più il performer è un filtro pulito, più la cosa aderisce a ciò che realmente è in quell’istante.

Xebeche © Gianluca Naphtalina Camporesi

Xebeche [csèbece] - © Gianluca Naphtalina Camporesi - Dancers: Carolina Amoretti, Sissj bassani, marta bellu, Rhuena Bracci, enrica linlaud, Marco Maretti, rachele montis, davide tagliavini

N.S.
Come e quando nasce il Manifesto per una danza possibile?

M.V.A.
Di Manifesti ne ho scritti due. Il primo era nato per gioco da una chiamata di KML [Kinkaleri/Mk/Le supplici, n.d.r.] intorno a un progetto di riflessione sulla situazione performativa attuale. Si trattava di circa una ventina di punti molto articolati e generici, scritti anche un po' per gioco, su quello che era per me l'arte contemporanea.
Dopodiché, quest'anno, ho sentito la necessità di approfondire il discorso, perché ho la percezione molto forte che, a causa delle condizioni politiche ed economiche degli ultimi anni, la cultura italiana sia giunta a manifestazioni reazionarie. Parlo in concreto della riconoscibilità necessaria a un prodotto per attestarsi e dei parametri di gusto tarati sul "mi piace" e "non mi piace", come anche della concezione dell'arte quale lavoro per tutti, condizioni queste che hanno impoverito la creazione di linguaggi su cui invece l'Italia è sempre stata molto forte, anche solo per povertà di risorse. Da Virgilio Sieni in avanti la danza italiana si è distinta non tanto per una qualità tecnica quanto piuttosto per un'originalità linguistica. Quello che si è confermato prepotentemente negli anni novanta è che non ho bisogno di una formazione di danza classica, quanto invece che il mio corpo sia esatto per ciò che intendo costruire. Questa esattezza si fa nel tempo un'abilità riconosciuta e una professionalità unica che diventa corpo di quella idea. Non è chiaro che se si sta determinando un linguaggio, io ho bisogno di allevare, sviluppare una peculiarità che sfocia in una tecnica. Se quel danzatore continua a spostarsi da autori che lavorano su peculiarità diverse, ogni volta bisognerà ricominciare il percorso da capo, perché il corpo deve essere educato e allevato a una sensibilità. Non si parte da una base standard, a meno che non si intenda per base quell'atletismo che permette al corpo di fare cose extra-ordinarie. Non sto dicendo che non bisogna avere una formazione, però se si sceglie una direzione di lavoro, si vada allora fino in fondo.

N.S.
Vorrei chiederti un'ultima cosa. Ho trovato nel tuo pensiero una connessione con le parole di Merce Cunningham. Il risultato coreografico è visibilmente molto diverso quindi non voglio apparentarvi, tuttavia credo che le reciproche riflessioni su corpo e soprattutto sullo spazio rivelino una continuità strutturale.

M.V.A.
Mi fa piacere che tu abbia citato Cunningham perché in qualche modo mentre lavoravamo a questo progetto io ho trovato Cunningham. Ho riconosciuto delle cose sue, da un punto di vista metodologico e non formale, e questo è stato un bell'incontro anche perché mi ha permesso di guardarlo dal punto di vista del dispositivo e non dal punto di vista formale. Formalmente ho poco a che fare con il suo lavoro ma rintracciando dei suoi scritti e delle sue interviste ho pensato che mi stava aiutando ad essere ancora più lucido su ciò che avevo appena intuito.

Natascha Scannapieco http://ipercorpo.it

Natascha Scannapieco, Osservatorio - Ipercorpo Festival 2017 di Silvia Mei