13/07/2011 - Sergio Lo Gatto, Teatro E Critica

Dopo due anni di lavoro, il progetto Motel [faccende personali] del Gruppo Nanou lascia entrare finalmente la luce in tutte e tre le stanze, offrendo agli occhi del pubblico tutte le tappe di un viaggio complesso, critico, spesso. Un viaggio, sì, qualcosa che per ciascuno vive a proprio modo, sulla propria pelle. Ciò che accade in ciascuna delle tre stanze nasconde un senso piccolo e sottile, un cuore che le luci, gli oggetti, il movimento dei performer e il ritmo che incrocia tutti questi elementi riescono a soffocare e rianimare continuamente, durante le due ore e venti complessive di spettacolo. E forse solo in questo modo.
Le figure umane che attraversano lo spazio sono anime geometriche fatte soprattutto di spigoli, contorni e macchie di colore. Nella loro relazione si articola l’intera drammaturgia. Ed è una relazione enigmatica, opaca, scostante e molto spesso disturbante, a metà tra l’allusione sessuale di stampo psicanalitico e il gesto dell’annusare proprio degli animali selvatici. Il rapporto non sembra essere tra uomo e donna, ma tra sogno e realtà, tra dentro e fuori. E accade, cresce, si mette in crisi, muore e rinasce. Tutto secondo i dettami di una religione del silenzio, forma ibrida di performance che molto deve alla danza ma in grado anche di scavare percorsi altri, orizzontali, di puro istinto e carne.
Pavimento bianco, luce livida che esplode in piccoli e graffianti flash, un tavolo che divora sedie e tappezzeria come una bestia affamata, il suono fastidioso e continuo di un’interferenza, il bagliore intermittente che si spande sulla scena come in quei vecchi film muti, nella Prima Stanza il rapporto di coppia è un monotono inseguirsi, uscendo e rientrando nello stesso discorso senza mai risolverlo, come se l’anima si perdesse nella metodica ricerca di qualcosa di commestibile di cui cibarsi. Questo ambiente glaciale, in cui il bianco e nero sorgono e vengono risucchiati dal tavolo che si fa scatola di luce, apre la prima ferita nell’improvviso rosso vermiglio dell’abito di lei, la faccia cancellata da una lampadina.
Quel colore sanguina dentro la Seconda Stanza, in cui il pavimento verde, le poltrone e il divano rosso vermiglio, i bicchieri di vetro marrone si fanno ambiente per un nuovo passaggio di stato. Il sapore è quello del noir anni Quaranta, il gusto cinematografico già ravvisato nel primo frammento prende qui le sembianze di un vero e proprio omaggio alla Settima Arte, i cui sistemi drammaturgici rivivono nel montaggio visivo ed emotivo creato dai frequenti bui, dall’ambiente sonoro e soprattutto dal disegno luci, che inquadra millimetricamente sezioni di mobilio e angoli di corpo, dirigendo l’attenzione attraverso un continuo “apri e chiudi” della pupilla. Non ci sono espressioni facciali individuabili, i momenti di quiete tra un movimento e l’altro vengono vissuti nella penombra à la Edward Hopper, eppure il tessuto del racconto diviene più spesso: c’è un fatto di sangue chiaro, attorno al quale vorticano presenze “reali” e astrazioni; c’è un non-luogo, quello della stanza di motel, che ospita oggetti riconoscibili ma anonimi, ammalati dall’uso, cui non è possibile aggrapparsi in cerca di sostegno.
I dialoghi sono fatti di gesti simbolici (come una sorta di partita a scacchi con bicchieri e cappelli) e a governare gli avvicinamenti è un fastidioso scarto di tempo, un’asincronia che tramuta la semplice incomunicabilità (concetto che risulterebbe trito) in una più radicale impossibilità di incontrarsi perché si vivono due dimensioni temporali e spaziali parallele, separate da impercettibili vuoti. Ed è questa consapevolezza desolante ad aprire la Terza Stanza, l’Anticamera, il vero e proprio limbo in cui sogno e realtà si lambiscono i margini a vicenda.
Il corpo ha ora dentro di sé tutte le distanze, tutte le durate, tutte le collisioni sperimentate nel viaggio, di cui questo terzo momento appare l’unico epilogo possibile. E quel corpo comprime tutto il vissuto in movimenti di costrizione, un accartocciarsi come d’insetto. La forma semplice e centrale del tavolo della prima stanza torna con sembianze più stilizzate, più simboliche: una scatola. Oggetto fondamentale per ogni tratteggio psicologico, materia solida di un senso vasto e irrinunciabile, quello del “contenere”.
Osserviamo quel corpo stiparsi dentro la scatola, che è ora insieme mondo familiare e distanza siderale, scrigno in cui sigillare ogni impulso, ogni accenno di passione. Illusione terminata. Il resto accade fuori da quel contenitore, dove risuonano risate registrate, applausi campionati. E, in uno straniante “riordinare la stanza” compaiono, rimpiccioliti in scala minore, poltrone, divani e bicchieri che sono stati testimoni di un atto per una volta umano, quel fatto di sangue. Ma sono oggetti morti, disabitati, come frammenti di un sogno che già non ricordiamo più.
La somma delle azioni che hanno luogo durante l’intera trilogia è troppo alta per conservare di esse una memoria definita. Ma già in questa piccola considerazione risiede parte del senso dell’intera operazione: lasciare in giro parti organiche, resti di un corpo passato attraverso quel non-luogo e già migrato altrove.
Addirittura la canzone che accompagna l’apertura della Terza Stanza, “Song to the Siren” di Tim Buckley cantata da una straziante Elizabeth Fraser, conserva nel testo tanti piccoli misteri: chiunque la interpreti (e le versioni che circolano sono tante) finisce per operare leggere variazioni a certi termini. L’interpretazione diviene liquida, ambigua, proprio come quelle tracce di sogno che restano attaccate alla memoria, potenti e intangibili allo stesso tempo.

Se il compito di queste righe è di dar conto di un’esperienza che muove davvero livelli molto diversi della percezione, proviamo anche noi a spiccare un salto, permettendoci di “consigliare” ai lettori l’ascolto di questo brano. Consigliate cuffie e occhi chiusi.

Motel – © Laura Arlotti

13/07/2011 - Sergio Lo Gatto, Teatro E Critica