26/08/2011 - Matteo Antonaci, Artribune

Nel programma della 31esima edizione del festival “Drodesera”, gruppo nanou presenta integralmente “Motel [faccende personali]”. Un viaggio dal respiro cinematografico innesca differenti dimensioni temporali. E mette in crisi la visione dell’oggetto spettacolare.

Si conclude con Anticamera il percorso di ricerca che gruppo nanou ha intrapreso poco più di due anni fa con il progetto Motel – [faccende personali]. È la trilogia composta da tre differenti stanze (quelle del motel evocato dal titolo) attraverso le quali la compagnia ravennate riflette sulle modalità di costruzione dell’oggetto spettacolare e sulle sue possibilità di fruizione.
Già le prime due tappe del progetto avevano fatto emergere la necessità di svincolare la visione teatrale non solo da qualsiasi forma di narrazione o racconto, ma anche da un’eventuale significazione diegetica dell’azione performativa. Azzurro-livida era quella Prima Stanza di Motel in cui i performer Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci compivano i loro gesti minimali costruendo in scena tableau vivant di una relazione taciuta. Nei mobili che arredavano la stanza (un tavolo, due sedie bianche, una gabbietta per gli uccelli, un tappeto) sembravano custodite dimensioni cronotopiche imperscrutabili, in cui ogni figura era improvvisamente risucchiata. Come spiata da una finestra, l’intimità domestica ritratta in questa prima tappa del progetto sembrava scomparire continuamente nei bordi del quadro scenico o in quegli spazi occultati alla vista dello spettatore. L’azione diveniva, così, semplice riverbero, effetto di qualcosa che accadeva altrove. Il suo stesso tempo, perfetto sconosciuto, non poteva più essere attraversato ma solo contemplato come si contempla un’immagine filmica. D’altronde, le luci disegnate da Fabio Sajiz, i suoni costruiti da Roberto Rettura e il montaggio delle scene contribuivano alla costruzione di una grammatica prettamente cinematografica pur rifiutante il proprio specifico tecnologico.

Tenendo salda questa vicinanza alla sintassi del film, la Seconda Stanza di Motel ribaltava, come la faccia di un cubo, l’intero oggetto spettacolare. Da estraneo ed esterno al tempo dell’azione performativa, lo sguardo dello spettatore era improvvisamente catapultato in un suo dettaglio. Una stanza rossa – arredata in perfetto stile anni ‘50 con due divani di pelle, una lampada in stile Castiglioni e uno specchio a scomparsa – accoglieva l’azione dei performer continuamente tesa a rilevare un unico accadimento: in questo luogo è stato consumato un omicidio. Martellante, tale dettaglio del tempo, così ravvicinato allo sguardo dello spettatore, lasciava nuovamente perdere le coordinate dell’azione performativa. L’immagine, segno di una narrazione violentemente maciullata – come l’invisibile corpo della vittima dell’omicidio – e agglomerato di rizomatiche citazioni (da Wong Kar Wai a David Lynch, da Edward Hopper a Gregory Crewdson da Ryan Mendoza a Jean-Luc Godard), si faceva custode del pulsare di questo “dettaglio di tempo”. Un punto perduto su una retta al cui fianco infiniti punti, come altri sconosciuti “dettagli di tempo”, continuano il loro medesimo ed identico movimento, influenzando, in maniera del tutto casuale, l’accadimento mostrato all’interno della stanza di motel. Mentre luci di invisibili corridoi, abbandonati in fuoricampo, illuminavano la scena, la Seconda Stanza appariva come una pellicola tagliata, bruciata, privata delle sue parti significative a cui lo sguardo sembrava eternamente condannato.

Perfetta conclusione del radicale percorso di ricerca intrapreso dal gruppo, Anticamera è un ulteriore ribaltamento del medesimo oggetto spettacolare. Su una scena spoglia e sulle note di Song to the Siren di Tim Buckley cantata da Elizabeth Fraser, il corpo di Rhuena Bracci indietreggia lentamente fino ad essere risucchiato da un cubo bianco abbandonato silenziosamente sullo sfondo. Aperta allo sguardo dello spettatore, la faccia frontale del cubo mostra al suo interno una minuscola stanza di motel o forse un suo piccolo dettaglio, un luogo rimpicciolito, distante, un punto colorato sul fondo della scena. Il vuoto che circonda questo punto, continuamente attraversato dai personaggi che hanno abitato le precedenti due stanze, appare così come un intermondo, quella dimensione cronotopica – prima segretamente contenuta dal mobilio e dai contorni della scena – che sta tra la prima e la seconda stanza.

La dimensione temporale esplorata nelle precedenti due tappe è pienamente annullata. Come nella stanza dell’uomo-pecora nel romanzo Dance Dance Dance di Haruki Murakami, gruppo nanou lascia approdare in una dimensione a-temporale in cui sono finalmente visibili quegli ingranaggi e quelle viti che regolano l’universo creato. Qui ogni personaggio può compiere quei gesti che, se pur determinati da motivazioni ignote, muovono indirettamente le fila di ciò che accade nelle stanze osservate precedentemente. Se pur isolati, i tre momenti di Motel vivono, così, in una dimensione sincronica e appaiono, finalmente, come fotografia di uno stesso scorrere temporale osservato da differenti prospettive. Uno smembramento in stile cubista del tempo, fino al suo sgretolamento, alla sua implosione.

Quando tutti gli ignoti meccanismi che permettono alle figure/personaggi presentati di esistere (ma anche la casualità con la quale tali meccanismi hanno influenza sulle due stanze) esauriranno il loro misterioso percorso e perderanno la loro alchemica utilità, allora un mondo potrà finalmente implodere, cancellare ogni sua traccia, assorbirsi come punto in uno sfondo ignoto. Uscite di scena tutte le figure, il cubo bianco, scatola/mondo delle due stanze di Motel, apparirà vuoto, sventrato. Una cornice, una custodia, un guscio svuotato che, improvvisamente, scompare nel buio.

26/08/2011 - Matteo Antonaci, Artribune