02/12/2014 - Laura Gemini, D'Ars Magazine

gruppo nanou è una compagnia di danza che opera in ambiente teatrale nata nel 2004 con base a Ravenna e la cui identità si specifica già nella scelta del nome: Nanou, infatti, è il nome proprio di persona che sta a indicare un’autorialità collettiva emergente delle specificità individuali di Marco Valerio Amico (attore), Rhuena Bracci (ginnasta) e Roberto Rettura (fonico) cui si sono aggiunti nel tempo, anche in relazione ai diversi progetti artistici, altri membri e collaborazioni tra cui quella con Fabio Sajiz (light designer).

Come formazione della scena contemporanea degli anni zero, etichetta che sta un po’ stretta ma che serve a connotare il campo delle performing art eredi dei Teatri Novanta, gruppo nanou rappresenta efficacemente quell’idea della ricerca artistica come linguaggio proprio che da vent’anni a questa parte viene portata avanti pervicacemente nel campo della danza e del teatro.

La tensione verso una qualità espressiva originale consiste per il gruppo nanou nel partire dalla consapevolezza di essere parte di una generazione post-ideologica capace di appropriarsi politicamente degli immaginari e delle tecniche che li hanno forgiati: dal subwoofer all’elettronica musicale di Chemical Brothers, Roni Size, Daft Punk fino alla videoarte prestata al videoclip di personaggi come Chris Cunningham e alla diffusione di Internet e del digitale.

La ricerca di un linguaggio proprio significa per Nanou mettere a punto una dinamica della scena che, sganciata dalla forma narrativa del racconto, sappia entrare in relazione con gli spettatori fornendogli soltanto degli indizi che devono essere ricomposti con l’immaginazione. Un po’ come succede nei racconti di Carver che, per citare Marco Valerio Amico, “apre sempre la porta mentre scoppia il casino e la chiude prima che si capisca come va a finire”.

Una ricerca dell’indiziario e della rottura narrativa che poggia su molti e interessanti riferimenti come ad esempio La finestra sul cortile di Hitchcock oppure il viaggio fotografico The Americans di Robert Frank o i quadri di Edward Hopper. Ecco allora che arte visiva, cinema, fotografia, teatro, danza, musica, letteratura collassano per dare vita ad un progetto che non sia il frutto di una sommatoria ma qualcosa che, come Nanou, sia il risultato terzo irriducibile alle sue parti.

Mettere in relazione i linguaggi significa andare incontro alla tecnica e alle sue affordance: il suono che produce azione, l’immagine che può essere semplicemente luce, il corpo parola. Nanou insomma preferisce l’incognita, la visione da lontano, i bordi indefiniti, la gratuità del gesto. I progetti e le performance indagano l’atto voyeuristico, non a caso attraverso i dispositivi visivi novecenteschi, per aprire un immaginario, fornire un accesso e far entrare lo spettatore, da solo, in un’ipotetica tana del Bianconiglio.

Funzionale a questa idea è una precisa concezione del tempo spettacolare dilatato e sospeso. In dieci anni di attività gruppo nanou ha realizzato una serie di progetti e performance molto coerenti, ma senza rigidità, con queste linee di ricerca. Basti pensare, come primo esempio, alla performance Sport (2011), sorta di ritratto di Rhuena Bracci e della sua attività di ginnasta, incentrata sulla gratuità di un gesto che nello sport, come nella danza, vale di per sé. Il richiamo all’iconografia sportiva, il movimento del corpo, è associato a un raffinato lavoro sulla percezione acustica ma il far vedere e il far sentire sono messi insieme per frammenti e tagli di luce che rendono inaccessibile la comprensione del tutto, come d’altro canto è impossibile afferrare il momento di concentrazione di un atleta o di un artista.

Nella gratuità è pensato anche il progetto Motel (2008/2011), trilogia composta di tre stanze – Prima stanza, Seconda stanza, Anticamera – che sono anche tre atti collegati ma fruibili singolarmente. Ogni episodio si basa sull’interazione dei personaggi che agiscono in un ambiente ordinario in cui sono gli elementi straordinari a spostare il senso dell’azione. Attraverso un lavoro di composizione per cut cinematografici gli episodi offrono soltanto dei residui narrativi, spostano l’asse temporale dell’evento, rifiutano il racconto in favore di una tensione verso l’accadimento senza risoluzione, senza catarsi.

Gratuità – qui espressa dal ballo – e formula modulare che ritroviamo nel progetto Dancing Hall (2012/2013) e nelle tre declinazioni coreografiche sviluppate negli episodi On air, Cherchez la femme, Dance Dance Dance. Si ritrova qui una precisa poetica incentrata sulla composizione di gesti che non vogliono significare ma proporre un posizionamento rispetto alla lettura dell’opera. La coreografia infatti è concepita sia come composizione generata dal corpo ma anche dalla luce e dal suono sia come riscrittura del rapporto fra tempo e ritmo. Quest’ultimo, infatti, è reso zoppo – in omologia con i linguaggi dell’elettronica, del drum’n’bass – per enfatizzare la mancanza di linearità di un racconto, per evocare un paesaggio di corpo-luce-suono che dischiude universi percettivi imprevedibili.

Su questa linea può essere collocato il progetto Strettamente Confidenziale (2013/2014) che nasce dal desiderio di accompagnare lo spettatore nell’immaginario di Nanou: incursione voyeuristica ed erotica in un paesaggio privato fatto di frammenti di cui non si conoscono né il prima né il dopo, estetiche da interno borghese, souvenir romantici, corpi di cui non vediamo quasi mai la faccia e che spiamo attraverso porte, vetri, spiragli. Il dispositivo drammaturgico in questo caso è quello dell’installazione con atti performativi, un labirinto nell’intimità da percorrere in solitaria. Compongono il progetto gli episodi WHR, acronimo di White Rabbit Hole, Camera 208, La finestra sul cortile, 1914. Performance, quest’ultima, commissionata dal Ravenna Festival nell’ambito di una serie di iniziative di commemorazione della Prima Guerra Mondiale e che diventa per Nanou il pretesto per cogliere un’altra deflagrazione: quella del passaggio nell’arte dal concetto di figura a quello, identificato da Deleuze attraverso Bacon, del figurale. Concetto utile a ribadire la necessità di andare oltre alla linearità drammatica narrativa e alla figurazione senza dover per forza arrivare all’astrazione.

Su questa linea si collocano anche il progetto John Doe (2014/2016) e la performance Shot. Il progetto parte dal nome usato nel gergo giuridico statunitense per indicare persone con identità sconosciuta o cadaveri non identificati e si affida all’immaginario fotografico a metà fra cronaca nera e arte di personaggi come Weegee. Ecco allora che John Doe è la figura/figurale, non rappresentazionale, che esprime l’assenza d’identità del corpo e della stessa costruzione coreografica. Una drammaturgia basata su situazioni e azioni che si susseguono ma che restano incompleti, da guardare come una fotografia che, ritagliando un frammento di realtà, lascia sullo sfondo situazioni precedenti e possibilità future. Ed è in questo modo che Nanou prova a rispondere, con Agamben, alla chiamata del contemporaneo che per essere tale deve essere intempestivo, sfasato, anacronistico, capace perciò non tanto di vedere le luci del tempo presente ma di percepirne l’oscurità.

02/12/2014 - Laura Gemini, D'Ars Magazine