Compiuti vent’anni, il collettivo ravennate fa un bilancio della propria ricerca coreografica: dallo sguardo cinematografico a quello coreutico, passando attraverso la potenza del corpo nella sua relazione con il cronotopo della scena contemporanea.

redrum - foto: Zani / Casadio
La danza come strumento per indagare la relazione possibile fra atto performativo e spettatore, per riflettere sul tempo come stato e per riscoprire una visione e una fruizione coreutiche al di fuori dei consueti riti novecenteschi dello spettacolo. gruppo nanou ha compiuto vent’anni ed è oggi una delle realtà più interessanti della danza contemporanea in Italia.
«La nostra è una storia eretica rispetto ai per- corsi della danza tradizionali – spiega Marco Valerio Amico, insieme a Rhuena Bracci fra i fondatoridell’ensemble –. L’idea è nata dall’incontro con Rhuena, oggi mia compagna sulla scena e nella vita e Roberto Rettura, rimasto con noi fino al 2020, proveniente dal sonoro cinematografico. Io arrivo dal teatro, mi sono formato alla Paolo Grassi come attore. Negli anni della scuola, di straforo, frequentavo la classe di teatro danza. Tutto ha avuto inizio lì. Rhuena ha invece una formazione da ginnasta. Dal 2020 il progetto sonoro e musicale della compagnia è affidato a Bruno Dorella.
Siamo tre individualità che si sono incontrate, mettendo insieme diversi percorsi artistici e visioni». Intrecci di sguardi, ma anche voglia difrequentare una polisemia che si racchiude nel nome della compagnia gruppo nanou: «Nanou è un vulcano, sono due canzoni di Aphex Twin, è anche il film di Conny Templeman. Era anche un sito porno sudamericano molto vintage – spiega Bracci –. Abbiamo scelto un nome che fosse evocativo di diverse esperienze semantiche e realtà. È stato difficile competere con le indicizzazioni del sito per evidenti ragioni».
Una molteplicità di stimoli che si traduce per Amico in una tensione a oltrepassare il già dato, ma anche a mettere in discussione i codici che accompagnano la fruizione e la creazione. «L’incontro con Rhuena al Festival Lavori in Pelle di Alfonsine, diretto da Monica Francia, è stato l’inizio di tutto, l’occasione per far dialogare lenostre diverse formazioni. Credo che il nostro lavoro possa trovare un focus nella riflessione sul tempo e sul corpo come forza nello spazio», spiegano i fondatori della compagnia ravennate, quest’anno vincitrice del Premio Ubu per il miglior spettacolo di danza con il lavoro redrum.
Piace partire da questo ultimo lavoro per cercar di capire lo status dell’arte di gruppo nanou, non per ripercorrere a ritroso il lavoro compiuto, ma per cercare di evidenziare le urgenze di una riflessione che chiama in causa la semantica stessa dello spettacolo dal vivo.
«Siamo partiti dal movimento, dal corpo come figura, dal gesto e dall’azione che si compie in scena e che diamo, regaliamo, mostriamo al- lospettatore – spiega Bracci –. Tale consegna porta a un atto di responsabilità. È compito dello spettatore costruire la narrazione, abitare e vivere quella condizione che i nostri corpi nello spazio pongono».
«La trilogia di Motel ci ha permesso di mettere in luce il nostro rapporto con un certo tipo di cinema e l’affetto per la fotografia novecentesca, anche come dispositivo drammaturgico – osserva Amico –. Poi abbiamo iniziato a saggiare il formato installativo con Strettamente confidenziale, costola del progetto Motel. Strettamente confidenziale è stato il nostro modo di festeggiare dieci anni di attività raccogliendo delle tracce delnostro lavoro e “musealizzandole”, ottenendo un percorso fatto di affetti, ma costruendo un diverso tipo di rapporto con la scena e con lo sguardo».
«Dal 2016 al 2020 ci siamo interrogati tantissimo sulla coreografia. Abbiamo trascurato l’immaginario cinematografico per capire come rendere più chiaro il nostro linguaggio coreutico. Siamo passati per Alphabet (ora diventato metodo divulgativo e di formazione, con la possibilità di borse di studio per studiare con la compagnia), abbiamo reso tutta la scenografia una mappa bidimensionale, abbiamo studiato il colore come strumento per cambiare la percezione, che evidenziasse la scelta di una traiettoria e l’alleanza fra gli strumenti scenici fuori da qualsiasi tematica narrativa».
Dalla pandemia sono nate diverse riflessioni che hanno portato a Paradiso, ad Arsura e al più recente redrum. «Ciò che ci interessa è sperimentare una fruizione altra della performance, affidarci a un tempo esploso che permette allo spettatore di gestire il proprio rapporto con l’atto performativo in piena libertà. Per questo, credo che l’aspettoinstallativo possa rappresentare una sfida possibile per ripensare il rapporto fra spettatore e artista, per capire comepoter immaginare una prossemica e una tempistica differente, rispetto al rito teatrale che forse va rinnovato, ripensato e ridefinito. In tutto ciò, la forza del corpo nello spazio da cui desideriamo partire è quella del figuro, un essere che abita e infesta i luoghi, che interagisce con la presenza dello spettatore, si deposita in essa e con essa crea un circolo virtuoso di generazione e rigenerazione del racconto (della luccicanza, parafrasando ancora una volta Shining)».
02/2025 - Nicola Arrigoni, Hystrio